Ospitiamo con grande piacere, la recensione che Dino Villatico ha scritto su “L’Uomo Invisibile” di Massimo Ridolfi, scrittore teramano e apprezzato curatore della nostra rubrica “Corale”, oltre che attento osservatore delle cose del mondo, che ci racconta con i suoi articoli.
L’UOMO INVISIBILE
Ecco un altro esempio di prosa che fa saltare tutte le supposte regole di scrittura che s’inventano troppe poetiche contemporanee, tutte intese a stabilire limiti, condizioni, proibizioni (e se no che poetica è?), indirizzo, periodi brevi, anzi brevissimi, e perfino regole sintattiche (paratassi sì subordinate no), del romanzo “moderno”, e per favore niente autofiction, niente polizieschi, che hanno rovinato la fantasia degli scrittori italiani. Povero Dante, povero Gadda: la Vita Nuova è un’autofiction, Il Pasticciaccio un poliziesco. La prima infrange le regola all’inizio della nostra storia letteraria, il secondo alla fine – che nessuno se n’era accorto ma era già la fine. Tempo fa attirai l’attenzione sull’attacco di un romanzo di Antonio Muñoz Molina, El jinete polaco: un unico periodo che occupa una pagina e mezzo. Oggi è la volta di un romanzo italiano, L’uomo invisibile, di Massimo Ridolfi (Letterature indipendenti, 2019). Il capitolo 4. Si parla di un gatto morto sulla strada. 13 righe senza punteggiatura. Il respiro è tenuto con il fiato sospeso dall’inizio alla fine: “Si fermò a guardare un gatto ghiacciato … trovargli e dargli pace sullo sterrato ben nascosto sotto il ciglio della strada proprio dietro il bidone squadrato e di un verde senza speranza”. In mezzo l’avventura del gatto e dell’uomo che lo scopre, o meglio: dell’uomo che scoprendolo mette alla luce la singola individuale tragedia di una vita che solo perché vita di un gatto ci sembra meno importante della nostra ma che nei fatti non una virgola, un particolare, un attimo la distingue dalla nostra. Ecco, chi ha scritto questa pagina è uno scrittore. Ma non perché ci commuove per la morte di un gatto (anche, ma è importante che la commozione sia un anche, non la sostanza dello scritto). È uno scrittore perché il problema che si è posto non è stato come commuovere, come colpire il lettore, ma come scrivere per colpirlo, per commuoverlo. Lo scrittore sa che deve colpire il lettore. Ma il suo problema di scrittore è con che scrittura possa, debba colpirlo. Poteva scrivere una serie di periodi, con virgole, punti e virgola, due punti, punti fermi. Ciò avrebbe favorito, resa più facile la lettura, ma l’avrebbe resa anche più banale, più comune, “regolare”, e finita l’epidermica commozione il lettore sarebbe passato oltre. Invece racchiudendo tutto il racconto in un unico periodo e senza aiutare il lettore a trovare i punti di sosta, di riposo, di delimitazione dei pensieri, il lettore è colto dalla sensazione di qualcosa di inevitabile, di complesso, che implica diversi fatti, diverse combinazioni di fatti, e tutte insieme, ed è preso dall’angoscia per il destino di quel corpicino congelato. Che – come accadrebbe anche per un uomo – finisce in un “verde senza speranza” che, si badi ancora, non è il verde della terra, al quale pure fa pensare, ma il verde di un bidone. E, si badi ancora: non nel nero, nel buio, colori della morte, ma nel verde, colore della vita. che è però qui colore “senza speranza”, quasi a dire che, prima della morte, è la stessa vita ad essere senza speranza. Come si vede, i livelli dell’apparente unico livello di lettura, sono invece molti, convergenti, ma perfino divergenti, una sorta di ramificazione di idee e di immagini che sgorgano dal testo, che vi gorgogliano sotto. Il testo, in sé, racconta di un gatto schiacciato e congelato che viene buttato sul ciglio della strada. Ma la vicenda del gatto – per chi ha letto i capitoli precedenti – si collega anche al freddo di una camera da letto in cui giace una vecchia tutta pelle e ossa e il marita, anche lui vecchio, e affamato, che mangia una crosta rinsecchita di pane con un cucchiaino di olio, i “poveracci” che il cemento dei palazzi ci nasconde. Non è solo la scrittura che presuppone sempre un sottotesto non scritto che l’alimenta. È la vita stessa che ha sotto una sottovita, e vita e sottovita presuppongono la morte. Ma come potremmo non dico raccontarne, bensì solo suggerirne l’intrico se non con una scrittura che sia anch’essa un intrico? Ecco perciò che la scrittura, il modo di proporsi, di presentarsi, della scrittura, si fa da sé, prima ancora del senso delle singole parole, e delle parole ordinate in una frase, comunicazione di un senso, e di un senso tanto più intricato quanto più intricata sia la costruzione del periodo. Continueremo dunque ancora a dire che il “moderno” chiede periodi brevi, frasi facilmente comprensibili, che non ostacolino una lettura continua, sbrigativa, liquidatoria, come richiedono i nostri tempi frettolosi? O vogliamo un mondo omologato, plaudente all’unico modello di scrittura, che sia il dettato imposto da una società non già di cittadini liberi e giudicanti, ma di automi ubbidienti al codice unico che agevola il consumo da parte degli automi e accresce i profitti dei produttori? Uno scrittore è scrittore perché il suo problema principale è la scrittura. Che poi abbia idee, storie da comunicare, sentimenti da esporre per commuovere il lettore, ciò dovrebbe essere dato per scontato. Se uno non ha niente da dire, a che gli serve scrivere? E a proposito del verde senza speranza, la vita, la terra, che dire quando si affronta di petto il tema?
vengo dalla terra
che sempre risorge
senza che nessuno
preghi per questo
(Da Le lamentazioni di Kiev, 5:1, Letterature indipendenti, 2022)
Capaci di distruggere siamo noi uomini ugualmente capaci di far “risorgere” ciò che distruggiamo? Le cose – un tempo si diceva la Natura – hanno le loro leggi. Che a noi interessano solo nella misura in cui possano accrescere il nostro potere sulle cose. Salvo a renderci conto – se veramente ce ne rendiamo conto – che questo immenso potere è capace quasi solo di distruggere l’esistente, ma non è in grado di generare esistenza. Nemmeno con una Intelligenza Artificiale.
DINO VILLATICO
COSI INVECE SCRIVE, DEL LIBRO E DELL’ AUTORE… L’AUTORE STESSO
«Questo libro nasce a Teramo nel 1998, ed è ambientato a Teramo, e racconta di una Teramo Mondo, di una Teramo terzomondista che scoprii quell'anno, che non sapevo esistesse: questo libro racconta la povertà, ma quella che non ti aspetti, quella nascosta dietro i muri delle case popolari di Teramo, di Pretoria, di Londra, di Pechino, di New York, perché questo è un Libro Mondo, che nella vita di uno scrittore può arrivare solo come una rivelazione, che ti può capitare di scrivere una volta nella vita, e dal quale non si torna più indietro.
Se a qualcuno venisse mai in mente di studiare la mia opera, non potrebbe che giungere a questo libro, fermarsi su questo libro e poi guardarsi intorno, perché questo è senza dubbio il mio libro più importante ti tanti che ho già scritto e licenziato.
Della pubblicazione non mi è mai interessato veramente, perché la mia ricerca è tutta concentrata nel processo di scrittura, e il rendere pubblico il mio lavoro toglie tempo per me vitale alla ricerca; ma un giorno d'estate, dopo pranzo, fuori al terrazzino della mia cucina, mentre fumava una sigaretta, Pietro* mi disse: "Pubblica almeno L'Uomo Invisibile, che è bellissimo! Cazzo! Pubblica almeno L'Uomo Invisibile..."»
Massimo Ridolfi
*Pietro Albino Di Pasquale, scrittore.