Condivido, sottoscrivo e copio il post di Stefano Scipioni, presidente di Acs, con il quale, in passato, non sono mancati confronti anche vibranti, sulle iniziative culturali.
Stavolta, però, non si parla del “cosa” ma del “dove” della cultura a Teramo e, in particolare, del teatro comunale.
Che sta morendo.
Come struttura, intendo.
La lenta agonia è iniziata e, come un enorme Cesare di vecchi mattoni, cadrà ferito a morte dalle coltellate di chi, forse, non l’ha amato mai o, peggio, l’ha frequentato solo per dovere di passerella o di ruolo.
Il post di Stefano Scipioni è un grido di dolore, terribile e meraviglioso.
Terribile, per quel che racconta.
Meraviglioso, per il tributo di sincera passione per quel mondo oltre il sipario, che trasuda da ogni parola.
Leggiamolo:
“In una storia di Fame, all'improvviso un buco, poi tanti buchi, senza nessun preavviso, senza una sirena antiaereo, un allarme anticarro, costretti a scappare come profughi, come esuli... come topi, mentre una storia viene sepolta, la vita ricoperta da polveri di inerti, ma il generale Burocrate ha pontificato, il colonello Politica ordinato, il tenente Amministrativo dato mandato e i soldati semplici Edilizia eseguito di buona lena. In una comunità senza volto, tutti coperti dal mantello del denaro dai mille colori, il Teatro, ancora una volta, ci svela per quello che siamo. RATTI”.
Ho telefonato a Stefano, per esprimergli la mia totale condivisione.
C’è un passaggio del suo scritto, quando dettaglia: “Burocrate ha pontificato, il colonello Politica ordinato, il tenente Amministrativo dato mandato e i soldati semplici Edilizia eseguito di buona lena”, che evoca i giorni che accompagnarono la condanna a morte del vecchio Teatro Comunale.
I giorni ai quali, con l’attenzione dello storico e la memoria del testimone oculare, Elso Simone Serpentini sta rievocando su queste pagine, in questi giorni.
Si usa dire che “Chi non conosce la storia, è condannato a riviverla”, ma non è vero: a Teramo tutti conoscono la storia del Vecchio Comunale, abbattuto anche per l’euforia di accogliere i magazzini a prezzo popolare. La Standa. Eppure, la stiamo rivivendo.
In peggio, addirittura.
All’epoca, quello fu un atto di coraggio. Devastante e assurdo, ma di coraggio, visto che si cancellò ogni traccia dell’antico teatro, per farne uno del tutto nuovo.
Oggi, quel coraggio manca.
La “scatola” orrenda che, sul Corso principale, ospita il teatro… resterà così com’è. Dentro cambierà tutto, ma fuori vedremo ancora l’orrida parete murata sul Corso e quella - inutile - vetrata alle spalle.
Prima ancora di aprire il cantiere, Teramo ha già perso l’occasione e il coraggio di guardare oltre l’orizzonte.
Di sognare.
Di concedersi una visione.
Avremmo potuto e dovuto fare di questo cantiere, proprio la sua peculiarità, il cardine di una rinascita, come Bilbao col Guggenheim, invece siamo costretti ad assistere alla compiaciuta autocelebrazione di una sconfitta.
E il tutto avviene in una sorta di tempo sospeso, nel quale a nessuno sembra interessare davvero la sorte del Comunale e il fatto che, dettaglio non trascurabile, la città che poteva vantare stagioni teatrali con due serali e una pomeridiana, quasi sempre sold out, e un numero di abbonati da città molto più grande, adesso resterà senza teatro.
“In una comunità senza volto, tutti coperti dal mantello del denaro dai mille colori, il Teatro, ancora una volta, ci svela per quello che siamo. Ratti”.
Condivido, sottoscrivo e copio.
Perché i topi non sognano.
E non hanno visioni.
Ad’a