Nella quasi totalità dei casi, trovo che il doppiaggio in dialetto di film, spot o personaggi famosi, sia di una disarmante pochezza.
Soprattutto in quanto a “carica comica” (e non dico “vis” perché entrerei in un ginepraio, con inevitabili riferimenti alla grande tradizione dell’arte di costruire sorrisi, che sarebbe confronto impietoso).
Eppure, da qualche tempo, sembra scoppiata una sorta di frenesia, una pulsione al doppiaggio vernacolare, una specie di virus che sembra aver contagiato i social. Con un sintomo imbarazzante: la distruzione di ogni traccia di autocritica negli aspiranti “creatori” (vogliono essere chiamati cosi), che impedisce anche ai peggiori di avere la percezione della loro incapacità.
A cominciare da tutti i marchigiani, portatori di un dialetto del tutto inadatto, con quelle c dolci, le doppie t mollicce, la cadenza fastidiosa… per arrivare ai veneti, dei quali amo le musicalità dialettali, ma non nei doppiaggi, fino ai lombardi, coi quali non vado oltre il “milanese imbruttito”, che seguo con grande piacere.
Doppiano poco i napoletani, i romani e i toscani, perché sanno di avere nelle corde tutta un’orchestra di variazioni comiche, che gli consente di navigare agevolmente su ogni, anche minimo, spunto creativo.
Doppiano, poco e male, anche pugliesi e siciliani, perché nel doppiaggio si perdono le gestualità che sono strutturali nella loro comicità.
Poi, ci siamo noi.
Gli abruzzesi.
Che del doppiaggio comico abbiamo fatto un’arte, con punte di eccellenza assoluta.
A cominciare da Fabio Celenza, il vastese che non ha scelto il dialetto, ma la difficilissima interpretazione del labiale per “riassegnare” valore alle parole, scolpendo con il suo «…Luigi coi bluejeans…» una delle pietre miliari del doppiaggio comico; per arrivare poi a Marco Papa, che ha riscritto interi film e sulla grandezza del quale non mi esprimerò, appartenendo alla nutrita schiera dei suoi fan, perché Papa ha intuito quanto fossero importanti non solo le storie e le trame ripensate, ma i dettagli.
E’ in quelli, nei dettagli appunto, che si distilla la differenza tra il gioco amatoriale di un “creator” e lo spunto inventivo di un artista. Nel «…e pure da stamattina che stam’ quaddendre…» nel cavallo donato a Troia, è appunto un dettaglio che si fa arte.
Come lo sono, e qui arrivo all’argomento di queste mie righe, le creazioni del Pretuziano, alias Marino Cardelli, archeologo teramano nel Regno Unito, telento assoluto della comicità “doppiata”.
Al punto da aver creato una serie di generi: la famiglia reale inglese, sia sotto Sabbetta sia sotto Carluccio, i gatti arrajati, i Peaky Blinders diventati “compari abruzzesi”, Games of Olives… fino ai fenomenali Alieni Abruzzesi, solo per citarne alcuni… ma sarebbe impossibile dettagliare la multiforme creatività del Pretuziano.
Soprattutto, è impossibile scrivere qualcosa, che vi consenta di intuire quanto quella cura del dettaglio, cui facevo riferimento prima, sia conferma del talento.
Le produzioni del Pretuziano, come le vere creazioni artistiche, pretendono infatti piani di lettura successivi e ascolti ripetuti, per intuirne le sfumature minime, gli accenni appena intuibili, i ceselli quasi sfuggenti. che si fondono nel comporre un riuscito intarsio creativo. Offrendoci quella che poi, in fondo, è la vera essenza della comicità: farsi lettura critica del nostro vivere. Anche dissacrando.
“Castigat ridendo mores”, dicevano i Padri latini (quelli della “vis comica”), anche se il Pretuziano non “castigat”, ma ci consente di ridere di un Mondo, il nostro, che scivola continuamente nella tentazione di prendersi un po’ troppo sul serio.
Mentre scrivo… guardo per la trecentesima volta “Brave Billy”…nella controscena a più voci dei cani in attesa, così come nel complimento (falso) al compagno favorito, c’è più Italia (e più Abruzzo) che in tanta cronaca giornalistica.
ad'a