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ErteiL’unica volta che l’ho visto e ascoltato fu il 25 giugno del 1992. Portava dei baffetti sale e pepeimmersi in un accento siciliano d’altri tempi.Come i suoi modi e come il suo eloquio, Divenne noto sui giornali nei primi anni ottanta, quelli che riscrissero la storia di Palermo. Si mormorava che l’unica vera soluzione per combattere la mafia fosse di mandare in Sicilia magistrati non siciliani. Troppe contiguità e compiacenze culturali, troppi intrecci e salotti.. C’era senz’altro un tanfo di complicità, nei palazzi di giustizia siciliani. Ma stava anche arrivando dai quartieri popolari di Palermo, una nuova generazione di giudici che avrebbe costretto tutti, ma proprio tutti, mica solo i giudici, a schierarsi. O di qua o di là. 

Paolo Borsellino era uno di questi. Timido, espertdi diritto civile, senza alcuna intenzione di occuparsi di mafia, ma destinato a diventare suo malgrado simbolo della lotta alla mafia. Sempre di più il suo nome veniva associato a quello di un suo amico, anche lui siciliano e cresciuto alla Kalsa: Giovanni Falcone. Con lui entrò definitivamente nel fortino della rivoluzione morale palermitana andando a far parte del pool antimafia organizzato da un collega più anziano, arrivato da Firenze come volontario per sostituire Rocco Chinnici, il primo giudice ucciso con un’autobomba. Si chiamava Antonino Caponnetto, e sarebbe diventato per lui una specie di padre putativo. 

Mi interessai per la prima volta a Borsellino nell’85, e scoprii di provare simpatia per questogiudice. Me lo ricordo bene. L’ho raccontato tante volte. Fu quando seppi che, per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio di più di 460 imputatidel maxiprocesso che per la prima volta squarciò le connivenzese ne era dovuto andare sull’isola dell’Asinara insieme a Falcone. Restai di stucco. Loro due costretti a vivere come carcerati mentre i mafiosi assassini veri vivevano tranquillamente al massimo come latitanti aPalermo. Si era un  avverato, in fondo, l’auspicio di una lettera pubblicata dal “Giornale di Sicilia” dopo la strage in cui era stato ucciso Chinnici: ma perché, chiedeva il lettore, questi giudici invece di fare correre a noi i rischi di quel che fanno non se ne vanno tutti a stare su un’isola, dove peraltro li si può difendere anche meglio?

All’Asinara i due amici (ai quali lo Stato presentò pure il conto delle spese) stesero un’ordinanza capolavoro, punto di partenza per la storica condanna di Cosa Nostra. Divennero così invisi in coppia non solo alla mafia ma anche ai propri colleghi del foro palermitano. 

Schivo e riservato, dopo la grande vittoria sulla mafia Borsellino scelse di spostarsi a non dimenticando mai l’amico Giovanni. E perciò intervenne pubblicamente a sua difesa quando vide vincere nel Csm il partito anti-Falcone, la giuliva ammucchiata di “benpensanti”democratici che al giudice simbolo dell’antimafia preferì, per il ruolo di capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, un signore sconosciuto che aveva il merito schiacciante di riportare la “normalità” nel palazzaccio dei veleni e dei corvi di Palermo. Contro il pubblico allarme di Borsellino sulla “normalizzazione” in corso venne invocata la sanzione del Csm. Ci furono gli assalti infiniti alla magistratura non connivente .Fino alla torsione terribile del’92, quando tutto cambiò. Fino a Capaci. Fino al suo sguardo smarrito e dolorante di chi sa che era giunta la sua ora..

L’unica volta che l’ho visto e ascoltato fu il 25 giugno del 1992. Nel cortile della Casa Professa. Diceva che non bisognava lasciare gli uomini solicontro la mafia. E certo quella sera, alla biblioteca comunale di Palermo, nel cortile della Casa Professa strapieno di cittadini, Paolo Borsellino non era solo. Lo accolsero con un applauso scrosciante quando arrivò. A mezza sera, in ritardo, perché, preso com’era dalle sue indagini, si era dimenticato dell’appuntamento. Aveva su di sé il fiato e il cuore di un popolo. Eppure il suo eloquio era quello di un uomo solo, in corsa contro il tempo. Si sedette al tavolo dei relatori, nel convegno organizzato dalla “Rete” per il trigesimo della strage. Lo guardavo alla mia sinistra mentre aspirava una sigaretta dietro l’altra, costretto a scrutarlo dietro le volute di fumo che gli si alzavano dalle dita. Tenne un discorso che fu un testamento morale da mettere i brividi. L’accento siciliano fuori tempo entrava nel microfono liberando frasi che erano sciabolate. La calma di certi passaggi era quella concessa a chi sa che è già arrivato l’esplosivo per ucciderlo. Disse che Giovanni aveva incominciato a morire dopo il tradimento dei suoi colleghi. Chiamò “Giuda”, con disprezzo biblico, il magistrato che aveva tramato nel Csm contro l’amico ucciso e tutti videro comporsi nell’aria il nome di un giudice palermitano nel frattempo andato in Cassazione. Disse che bisognava fare in fretta, che non c’era molto tempo. Poi si scusò con tutti e spiegò che doveva tornare a casa a lavorare. A quel punto successe un fatto straordinario. Una di quelle cose che non dimentichi più tutta la vita. Le mille e più persone assiepate intorno, e in ogni dove, si alzarono in piedi tutte insieme. Per applaudirlo forte, sempre più forte. Per dodici minuti di fila. Avevano capito quel che lui aveva capito. Che avrebbero ucciso anche il giudice gentile. E vollero far sentire almeno a lui, da vivo, l’applauso che Giovanni Falcone non aveva potuto sentire. Aveva con sé il suo popolo, eppure era solo. Sarebbe andato a lavorare solo, solo con le sue memorie, le sue consapevolezze, le sue carte. Ora 32 anni dopo lo immagino solonella notte, vittima della storia più vigliacca d’Italia. Ma diimostrò la sua grandezza all’alba dell’ultimo mattino della sua vita. Per rispondere a una professoressa di Padova con gentilezza e pazienza, come sempre scrisse quello che da sempre è diventato il motto da cui nasce il Premio Borsellino:. “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti, e soprattutto i giovani, a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.” … Me lo immagino chino su quella carta, i baffetti gentili, qualche ora prima dell’esplosione infernale Più ci penso e più mi convinco che quella lettera all’alba sia stato il segno più vero della sua grandezza. 

LEO NODARI