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LUTTOEravamo quattro amici… no, al bar no e nemmeno quattro, di più. Ne eravamo cinque, io, Stefano Rabbuffo, il giudice Bruno Tarquini, Pasqualino Prosperi e lui, Mimmo Moschetta. Passeggiavamo per il Corso o Piazza Martiri nelle sere d’estate e nelle sere d’inverno, su e giù. Ci incontravamo ad una certa ora senza esserci dato appuntamento. Conoscete “le vasche”? Quelle. Da cinque scendemmo di numero, a mano a mano, fino a quando la compagnia si sciolse. L’ultimo ad andarsene, ieri, è stato Mimmo Moschetta.
Ma da tempo, scomparsi i primi quattro, lui non usciva più. Ormai novantenne, era allettato. Lui che da giovane era stato un atleta, un bravo giocatore di pallacanestro al liceo e all’Università. Lui che da medico aveva curato generazioni e generazioni di malati, da quando aveva cominciato ad esercitare l’arte medica come aiuto del prof. Corazza al vecchio ospedale “Mazzini”, che si trovava in Viale Crucioli, ex via XX settembre.
Era un uomo, un grande uomo.
Uomo di medicina, sempre fedele al giuramento di Ippocate, e uomo di lettere, di buone letture, appassionato di storia. Amico di quelli veri, generoso, altruista, sempre disponibile, di quelli che sapevano leggere davvero i referti di analisi ematiche a primo colpo d’occhio, di quelli che correvano nelle case con la valigetta medica in mano. Nelle nostre passeggiate serali, come peripatetici nel Liceo di Aristotele o nell’Accademia di Platone, discutevamo di tutto, di storia, di filosofia, di diritto, delle mode che passavano mentre i valori restavano, almeno per noi, perché per gli altri passavano. Quando il libraio Topitti ci vedeva passare sotto i portici davanti alla sua libreria, sempre dopo una certa ora, faceva la sua battuta: “Ecco che passa la destra”, perché fino a poco prima aveva visto passare “compagni” di sinistra, che andavano confabulando tra loro, parlando di un socialismo ideale che continuavano a sperare che potesse realizzarsi, prima o poi.
Quella era… è già una Teramo d’altri tempi, che non tornerà più.
Sento dire che adesso lungo il Corso e in Piazza Martiri non si discute e non si colloquia più, o si sghignazza seduti ai tavolini dei bar sorseggiando aperitivi e ingurgitando tramezzini, o ci si picchia e si fa a coltellate per uno sguardo di troppo ad una ragazza.
E’ un tempo remoto quello, quello nostro e quello suo, di Mimmo, che era il più anziano di noi ed è quello che, pur essendo più asciutto e smilzo di noi, ha resistito di più alle ingiurie del tempo.
E’ stato un grande medico, un buon padre di famiglia, un ottimo uomo, una brava persona, idee politiche sante e giuste, severo nei giudizi, generoso nel riconoscere a ciascuno il diritto di esprimere la propria opinione, ma rigoroso nel correggere cose dette in modo inesatto e chi raccontava storie controverse un po’ troppo a modo suo.
Mimmo Moschetta è stato un amico che considerava sacra l’amicizia, non scambiava la fedeltà per lealtà, ostinato nel contrastare nel vecchio ospedale di Via Crucioli i colleghi che già deragliavano dai binari di un corretto esercizio della professione medica puntando a personali vantaggi, e nell’opporsi nel nuovo ospedale a quanti badavano più all’interesse privato che a quello pubblico, al proprio tornaconto più che a quello dei malati. E’ stato umile e coraggioso, conservatore e rivoluzionario, autentico di un’autenticità perduta, uomo di una umanità d’altri tempi.
E’ stato un esempio: di correttezza, di coraggio nell’affrontare la vita senza prenderla a morsi, ma anche senza farsi travolgere dai dolori e dai lutti. Mimmo Moschetta ci ha indicato una via, “la via”.
Sta a noi percorrerla, sta a quanti di noi ne sono capaci, perché non è facile seguirla, frastagliata com’è e non diritta, irta di ostacoli, al contrario di come sono le vie più agevoli, le scorciatoie verso i facili successi. E’ la via contraddistinta dall’onestà e dal rigore morale.
Con lui, per me, se ne va una stella polare, come prima, quando lo avevano preceduto verso l’ignoto gli altri amici peripatetici sopra citati, si erano spente altre stelle nel firmamento che contemplavo quando alzavo gli occhi verso il cielo.
ELSO SIMONE SERPENTINI