Era il bar dei biliardi; il bar dei teramani; il bar dei cup studenteschi. Era il bar di Mimì, un omone grosso cosi ma buono come il pane, che se ti mancavano 500 lire, ti faceva un cenno con la mano e ti lasciava andare via; che se si accendeva un diverbio tra chi giocava a carte, correva a prendere i protagonisti per la collottola e li portava fuori; che assisteva alle scenette degli abituali avventori cariche di ironia e sorrisi (se non di sarcasmo), con una bonomia che era quasi saggezza.
Il bar di Mimì, al Corso vecchio proprio a metà; una autentica istituzione per almeno tre generazioni; in realtà si chiamava “Pizzadoro” (tutto attaccato) perché lì si faceva una pizza di quelle rotonde, il cui gusto non è stato più raggiunto da nessuno. Probabilmente non c’è teramano, dai quarant'anni in su, che non ci sia andato almeno una volta. E quando entravi, lì al bancone c’erano quasi sempre "lì pennecune", i perdigiorno, i cupparoli di tutte le scuole; ma anche gli "impegnati": gli intellettuali e i professionisti; le glorie del calcio biancorosso e i commercianti storici; ma soprattutto, gli attori di un teatro che aveva il bar come palcoscenico in cui si mettevano in scena vizi e virtù, miserie e nobiltà, passioni e rinuncie, speranze e fallimenti, erano gli artigiani i principali protagonisti; quelli che riempivano il centro storico con le loro confuse botteghe e che andavano da Mimì a stemperare i fuochi di una attività e di una vita che richiedevano passione, impegno, fatica: erano loro, con le narrazioni della minuta storia della città, sempre declinata in satira, pungente o ironica, l' eco di un luogo ben definito nel tempo e nel cuore di Teramo. Proprio come Mimì (soprannominato “Pappone” per la sua straordinaria capacità di far festa alla tavola del desinare): un artigiano a modo suo, che faceva del suo lavoro un mestiere sapiente ma non presuntuoso, paziente ma non remissivo e infine necessario e imprescindibile.
Ne parliamo perché proprio oggi, il 4 settembre di 30 anni fa, Mimi è andato via ed è stato ricordato poco in tutto questo tempo, sebbene sia stato, a modo suo, davvero un punto di riferimento identitario per la nostra città. Oggi non c’è più quel mondo, non ci sono più quelle atmosfere tutte teramane; oggi, tra spritz, aperitivi e professionalissimi lounge, si va al bar per dar luogo ad un rito collettivo, figli dei tempi e delle mode; allora si andava al bar per vivere il tempo, per trovare rifugio e ristoro, per consumare amicizie e sarcasmo; quel sarcasmo identitario che, se qualcuno lo volesse raccontare, sarebbe espresso in innumerevoli episodi e aneddoti. Come non ricordare, poi, quando si faceva cup, non si andava a scuola, e il rifugio sicuro era proprio quello dei biliardi al secondo piano, dove le partite, le prime sigarette, le sfide senza regole scandivano e riempivano le cinque ore... Non c’erano commessi in quel bar: Mimì stava sempre lì, in quell'ambiente cosi speciale, testimone di un’epoca che è andata via, perché così succede, da sempre, ma che sarebbe bello ricordare di tanto in tanto, fatta di levità, di semplicità, di "spadolini" a gogò (bicchiere di birra di dimensioni ridotte, in ottemperanza alla politica di Spadolini di austerità, che predicava sobrietà e parsimonia); di bilie da imbucare e l’amico da prendere in giro e la pizza da gustare; di cose buone, insomma. Proprio come lui, quell’omone che era l’icona di un tempo perduto ma per sempre nostro.