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Elsus1Siamo finalmente in grado di ricostruire, e lo farò con la massima concisione possibile, ma con grande precisione, sulla base di ricerche mie e di Gabriella Serafini, anche lei consulente dialettale del Maestro Enrico Melozzi per l’allestimento della Notte dei Serpenti, tutto il percorso compiuto dalla ormai ancora più celebre “Cicerenella” dalla sua nascita ai primi del Settecento fino alla disputa che c’è stata in questi nostri giorni, dopo ben tre secoli di storia di musica popolare.
Ribadisco che non si è trattato di una “banale e ridicola lite” (come sostenuto da taluni, capaci di volare solo molto basso), ma di una buona occasione per far emergere il brutto vizio (un “viziaccio”) di registrare a proprio nome brani anonimi di musica popolare o loro elaborazioni, di fatto appropriandosene e considerandoli come personale proprietà e quindi ritenendosi autorizzati a rivendicarne il copyright.
La storia parte dai primi anni del Settecento.
Sappiamo che già a quel tempo circolava una filastrocca per bambini, che il filosofo napoletano Giambattista Vico cantava alla sua ultima figlia Teresina tenendola sulle ginocchia. Musicata, la filastrocca prese il nome, secondario, di “Tarantella di Posillipo”. Ne circolarono varie versioni rielaborate per canto e pianoforte, veniva eseguita per le strade di Napoli dai tantissimi posteggiatori che le affollavano. Ma nel 1826 qualcuno fece il furbo, si chiamava Pietro Labriola, il quale riuscì a farsela registrare a proprio nome dal Ministero del Regno di Napoli. Di brani popolari anonimi a suo nome riuscì a farsene registrare, diciamolo in termini napoletani “’na cufenature”, cioè una grande quantità. Compì la stessa operazione che avrebbero compiuto, dopo ben 185 anni, i Tequila e Montepulciano, che nel 2011 depositarono alla Siae la loro versione di “Cicerenella”, cominciando a vantarne i diritti e, soprattutto, annunciandola come “originale”, a cantarla nelle loro serate nelle sagre di paese, facendo credere al pubblico di bocca buona che ne fossero autori ed essendo creduti. Tanto la gente che ne sapeva? E tutti a saltellare e a sghignazzare tra i tavoli con sopra le birre e i panini con la porchetta.
Bene, proseguiamo. La “Cicerenella” si diffuse in tutte le province meridionali, cambiando pelle, versioni e testi ad ogni passo, praticamente non c’era borgo in cui non si cantasse una particolare e locale versione di “Cicerenella”, che mutava pure nel tempo stando nello stesso luogo. A Napoli tra i tanti posteggiatori che la cantavano ce n’era uno particolarmente pittoresco, aveva il soprannome di “don Antonio o cecato”. Era un violinista cieco nato nel 1816, che faceva ridere assai, perché gli mancavano molte lettere dell’alfabeto: la esse, la elle e qualche altra. Aveva con sé due compagni: un suonatore di trombone, che lo trascinava come un cane con una corda attaccata al suo panciotto, e un ottavino, che lo precedeva e gli faceva da battistrada per le vie e le viuzze, annunciandolo, come un banditore. Salvatore Di Giacomo raccontava: “don Antonio o cecato cantava la vecchia canzonetta popolare con la quale i nostri nonni ci hanno fatto saltare sulle loro ginocchia un po’ tremanti”.
Sul finire dell’Ottocento arrivò a Napoli il grande Richard Wagner, per trovare la serenità necessaria per terminare il suo “Parsifal”, l’ultimo suo dramma musicale, che andrà in scena per la prima volta il 26 luglio 1882 al Festival di Bayretuth. Wagner alloggiava nella Villa Dorotea di Posillipo, ascoltò un posteggiatore, Giuseppe Di Francesco (1852-1935), soprannominato “o zingariello”. e si innamora talmente della canzoncina che si riportò il posteggiatore in Germania, tenendolo con sé tre anni, prima di rimandarlo perché gli aveva insediato la governante.
Nel 1885 Vincenzo Della Sala raccolse il testo di “Cicerenella” che circolava all’epoca per le vie di Napoli e il testo venne pubblicato sul giornale napoletano “Giambattista Basile” di quello stesso anno. La canzonetta, ormai diventata celebre, si diffuse anche in Abruzzo, con diverse versioni, ma conservando il tono favolistico di una filastrocca per bambini.
Pietro Mazzone (Napoli, 13 febbraio 1868 - Napoli, 31 maggio 1934), soprannominato “’o rumano”, dotato di una voce calda e ben modulata, dolcemente ruvida, dallo spiccato accento napoletano, che si esibiva come cantante in piccole trattorie di Pozzuoli e Napoli, insieme con il chitarrista Walter Fugazza, detto “'o figlio d'a signora”, il 24 aprile 1910, grazie ai fratelli Americo e Vincenzo Esposito, titolari della casa discografica Phonotype Record di Napoli, fu il primo posteggiatore della storia ad entrare in una sala di incisione, scritturato il 26 marzo 1906 per 240 lire, e realizzò un disco a 78 giri che comprendeva brani riuniti sotto una comune denominazione: “canzoni sulla tarantella”, tra i quali “Cicerenella”, con il numero di matrice 43016 e la data del 28 aprile 1910.
Ci furono, anche in Abruzzo, periodi di alta e bassa diffusione. Dopo uno dei secondi, nel 1958, venne raccolta una versione da Elvira Nobilio nella zona di Penne, si intitolava "Cicirinella teneva teneva" e aveva un ritmo sostenuto, mentre una voce maschile ripeteva velocemente: "Cicirinelle teneva teneva teneva teneva Teneva teneva, teneva teneva teneva teneva Teneva teneva teneva teneva teneva”, prima di elencare nelle strofe tutte le cose che Cicirinella teneva. Nel 1969, sei anni dopo che Roberto Murolo aveva riportato in auge accompagnandosi solo con la sua chitarra, la versione napoletana antica, Nicoletta Spagnoli e Annamaria D’Ugo, nella zona costiera del vastese in provincia di Chieti, Casalbordino, raccolsero una versione, intitolata "Cicirinelle teneve nu yalle", senza ritornello, che, pur nella brevità, riportava di Cicirinella che teneva “nu yalle, na gatta… nu cane”. Florindo Ritucci Chinni (Vasto 28.10.1886 - 12.1.1955), musicista e sindaco della cittadina, scrisse “La canzone di Cicirinelle”, in cui all’interno di un proprio testo, venivano citate alcune strofe della “Cicirenella” antica, nella versione abruzzese, per molti versi simile a quella calabrese, con la quale aveva in comune la strofa e “‘nu cani / che muccicava li cristiani”. La canzone di Ritucci Chinni rievocava il tempo in cui le mamme, “annazzicando” (cullando) i loro bambini piccoli cantavano loro tra le varie ninnananne anche la “canzone di Cicirinelle”. Era una bella canzonetta, diceva la seconda strofa della canzone di Ritucci Chinni, che metteva allegria e, tra uno strillo e un saltello, faceva scomparire “la picundrie” (la malinconia). Le mamme prendevano dalla culla (cuccia) i bambini, li mettevano sulle ginocchia a cavalluccio e cantavano allegramente la canzonetta. La canzone di Ritucci Chinni venne eseguita il 21 settembre 1969 a Poggiofiorito (CH), dalla Corale “Tommaso Coccione”, voce solista Gaetano Ciancio e ne venne fatta una registrazione. Le versioni abruzzesi si moltiplicarono, Carlo Di Silvestre nel 1993 ne raccolse una nella zona di Farindola, in cui i suonatori di organetto proponevano ritmi veloci, più tesi alla rapidità di esecuzione che alle parole. Nel 1999 Carlo Di Silvestre raccolse una versione di Cicirinella (N. 117) e la registrò nel 1999. Nelle strofe si diceva che Cicirinella teneva “nu ciucce, nu galle, nu cane, na gatte”. Era ancora la vecchia filastrocca per bambini, priva delle sconcezze che sarebbero arrivate dopo.
Nel 1987 Massimo Ranieri interpretò in teatro il “Pulcinella” di Manlio Santanelli, tratto da un copione di Roberto Rossellini, per la regia di Maurizio Scaparro, e nello spettacolo cantava la celebre “Cicerenella” nella versione rilanciata da Roberto Murolo nel 1963, ma limitatamente alle prime cinque strofe, quelle in cui Cicerenella teneva in successione “‘nu ciardino, ‘na gatta, ‘nu gallo, ‘nu ciuccio, e ‘na gallina”. Replicherà lo spettacolo negli anni 1990-91 e nel 2008 ne venne fatto un film, “L’ultimo Pulcinella”, sempre per la regia di Maurizio Scaparro, in cui Ranieri, affiancato da Adriana Asti, cantava “Cicerenella”.
Il grande Roberto De Simone con la sua Nuova Compagnia di Canto Popolare diede una svolta epocale a “Cicirenella”, un’altra svolta arrivò con Beppe Barra, che le diede un sottotitolo: “Il canto dei tamburi), e introdusse diverse novità di testo. Tutte e due si affiancarono ad altre versioni, una più bella dell’altra, di Pina Lamara, di Consiglia Licciardi, di Ciccio Capasso, dei Napulantica, del calabrese Toto Marino, della cantante francese Marie Laforet, per finire a quella di Liberato, oltre a tantissime altre.
Ma quando arrivò la versione abruzzese “osé” (per dirla alla francese), “pecoreccia” (per dirla all’abruzzese)? Alla domanda risponderemo domani, ricostruendo anche questa fase sulla base delle nostre ricerche.

1 / continua 

ELSO SIMONE SERPENTINI