Chi vuole imparare l’arte del canto e ha sufficiente passione e vocazione da spendere, nella nostra provincia, e non solo, perché da qualsiasi parte ci si muovesse si arriverebbe a uno dei maggiori maestri di bel canto italiano presenti oggi in Italia, non deve rimanere nel capoluogo ma spostarsi di qualche chilometro e giungere a Poggio Morello, una frazione del comune di Sant’Omero, poche case attaccate a una salita, che a raggiungerla in macchina si impiega circa mezz’ora, percorrendo una provinciale interna abbastanza scorrevole alla guida, perché è lì che sta La Scuola del Bel Canto Italiano del Maestro Marco Traini, perché il Maestro ama il raccoglimento, l’autunno e le calde stanze dell’inverno, perché lavorare e vivere per lui sono parti della medesima arte, quella del dare piena voce alle parole nel canto.
Ma con lui cercherò di affrontare un tema a me molto caro, che non è quello della canzone o del cantante bensì dell’uomo che canta. Tema accennato più di una volta nel suo studio di Poggio Morello con la promessa di riprenderlo un giorno con calma, quando gli impegni ci avrebbero concesso uno spazio da dedicargli. Ed è lui a raggiungermi a Teramo questa volta portandomi in dono la sua ultima pubblicazione, Melodie Italiane(Ideasuoni 2024), dove in un saggio di rara bravura, in appena ottotracce, accompagnato in acustica da valenti strumentisti,riesce a reinterpretare composizioni intramontabili del canto italiano,modulando la sua voce alla canzone napoletana, allo stornello romano e ai grandi classici in lingua, legando in un unico racconto cantato la nostra migliore musica “leggera”: ho sempre sostenuto che la canzone non appartiene a chi l’ha scritta ma a chi la canta meglio, del resto basta citare Elvis Presley, il più grande interprete della storia della canzone, che in carriera ha scritto appena quattro pezzi, tra il ‘56 e il ‘57 (AllShook Up, Heartbreak Hotel,Don’t Be Cruel e Love Me Tender), interpretandone invece diverse centinaia, tanto che gli autori di tutto il mondo facevano carte false pur di sentire una loro composizione cantata da The King;ed è con questa consapevolezza che inizio l’intervista al Maestro Marco Traini.
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Quando arriva la parola nella storia della musica?
Già alla fine del ‘500. A un certo punto si accorsero che la musica da sola non bastava. Fu Claudio Monteverdi che iniziò a drammatizzare le parole nella musica d’arte esaltandone le potenzialità drammaturgiche, vale a dire la loro capacità di rappresentazione dei sentimenti umani attraverso il teatro musicale, cioè l’opera lirica. Monteverdi si accorse che i compositori non potevano più escludere dalla propria opera la musica di cui ogni parola è intrinsecamente padrona e dovevano prenderne atto, cambiando per sempre la storia della composizione musicale. Quello che più conta da allora è la sapiente mescolanza tra musica e parola, tra nota e voce, lo strumento musicale per eccellenza. Ecco, a un certo punto Monteverdi si accorse che nelle partiture musicali si doveva esaltare, attraverso la scrittura drammaturgica, lo strumento principe della musica: la voce umana, il dono più grande, strumento che solo a pensarlo di ridurlo teoricamente ci appare il più complesso che possa esistere quando invece è il più naturale. Tecnica compositiva che per primo praticò e teorizzòl’imprescindibile Maestro cremonese, che hanno poi saputo interpretare e mettere in pratica come nessun altro Giuseppe Verdi, Gioacchino Rossini, Giacomo Puccini, tanto per fare dei nomi. Ed è un mio rovello, anche e soprattutto nell’insegnamento, quello di insistere sul legato tra musica e parole, sull’importanza di senso della parola nella frase musicale.
Cosa cambiò allora, tecnicamente, con l’avvento della paroladrammaturgica e della sua voce nella composizione musicale d’arte?
Che i compositori dovettero a un certo punto adattare la partitura al testo e viceversa, da qui il rilevante ruolo del librettista. Ad esempio nell’aria Che gelida manina de La bohème di Puccini la parola “speranza” viene espressa con il do di petto, deve essere drammatizzata con il do di petto. È un problema che non sarebbe sorto in assenza della parola drammaturgica. E Puccini, Giacosa e Illicadovettero prendere atto della presenza di quella parola – “speranza” – in partitura e rispettarne il senso. Ecco un esempio di come cambiò la scrittura musicale, che, altrimenti, avrebbe proseguito a segnare il pentagramma senza tenere conto della parola scritta drammaticamente.
Possiamo dire che quella del Bel Canto è l’arte italiana per antonomasia, più di qualunque altra?
Sì, assolutamente. L’italiano è la lingua del canto, per questo motivo il suo inserimento attraverso la parola drammaturgica nella composizione musicale cambiò la Storia della musica.
Quando arriva il canto nella tua vita e come?
A cinque anni. Ho iniziato a cantare a fianco di mia madre, suonatrice d’organo. A casa. Intonavo insieme a lei, con lei,Quel mazzolini di fiori, o i canti degli alpini. Ricordo queste nostre voci che andavano su libere, naturalmente, senza preconcetti teorici o tecnici, che sono solo un impedimento alla naturalezza della voce. Come deve essere. E poi ho cantato nel coro della chiesa di Poggio Morello, dove ho vissuto per molti anni. Luogo al quale sono molto legato. Non a caso ho fondato lì la mia scuola di Bel Canto. E lì sono ogni giorno a studiare e poi a insegnare. Così, con dedizione, sono riuscito a fare del mio talento, della mia vocazione, la mia ragione di vita e il mio mestiere, ma dopo una lunghissima gavetta, che vuol dire studio al riparo dalle lucine sempre false del successo, che non ho mai ricercato. Io ho sempre e solo ricercato il Bel Canto, ed è quello che cerco di trasmettere ai miei allievi attraverso le mie lezioni.
Possiamo affermare che l’aria operistica è genitrice della canzone, della musica cosiddetta leggera, che tu frequenti con eguale interesse mi pare?
Sì, certamente. Evidentemente. Quando entrai alla Reale Accademia Filarmonica di Bologna, cominciai a cantare in diversi teatri, acquisendo delle scritture melodrammatiche della tradizione italiana. A un certo punto, però, fui rapito dalla canzone italiana. Dalla musica popolare. Dalla cosiddetta musica leggera, che leggera non lo è affatto. Poi è stato fondamentale per la mia discografia l’incontro con l’etichetta Ideasuoni del produttore teramano Flaviano Di Berardino, con il quale ho prodotto tutti i miei dischi: Dall’amore all’oblio (2007), dedicato alle arie di Francesco Paolo Tosti; Le più belle canzoni italiane (2008), primo volume dedicato alla musica leggera italiana; e ora Melodie Italiane (2024), secondo volume dedicato alla musica leggera italiana. E già sto lavorando per l’uscita del terzo volume, dove proporrò mie interpretazioni del grande cantautorato italiano. In Melodie Italiane ho goduto degli arrangiamenti di Stefano Zaccagnini e delle sue chitarre, e del suo mandolino. E hanno suonato Antonio Felicioli (flauto e sax soprano), Giovanna Famulari (violoncello), Rita Turrisi (violino). Ma tengo a ricordare anche il lavoro di Ivan D’Antonio, per la fotografia.
A un certo punto, però, indossi la fisarmonica.
Sì, in Che m’e mparato a fa. In realtà sono pure fisarmonicista. Dall’età di nove anni ho cominciato anche lo studio della fisarmonica, che è la mia compagna di vita da molti anni. Suonavo nelle balere e nelle feste di piazza quando ero a Bologna, e questo mi permetteva di pagarmi gli studi alla Reale Accademia Filarmonica e, privatamente, con i più importanti maestri di canto. Io ho suonato sempre con laPaolo Soprani che mi regalò mio padre, che mi accompagna da quasi quarant’anni. È uno strumento molto importante, utilizzato dai più grandi professionisti. Mio padre, vista la mia passione per la musica, decise allora di comprarmela.Ma non bastava certo suonare la fisarmonica per pagarmi gli studi di perfezionamento al canto. Infatti, quando giunse il momento che mi trasferissi a Milano per continuare il mio studio del Bel Canto, per pagarmi la permanenza nella capitale meneghina, dovettitrovare lavoro come magazziniere. Questo mi permise di restare lì per cinque anni e continuare il mio studio della musica. I giovani è bene che sappiano che è molto difficile vivere della propria arte. E per arrivare a tale risultatobisogna fare molti sacrifici; ovviamente, ciò vale la pena di farlo solo se si crede in quello che si fa e non al successo: non si fa artealla ricerca del successo.
Credo che questa interpretazione, delle otto, tutte magistrali, sia la più riuscita. Però, delle otto tracce contenute nel disco, ce n’è una che considero un azzardo, la più rischiosa di tutte perché filologicamente la più slegata, anche se ha avuto grandi interpreti, come Fred Bongusto, che per primo ne propose la versione in lingua italiana nell’album Un’occasione per dirti che ti amo del 1971, e parlo de La mia vita/My Way: la versione originale è del 1969, ovviamente portata al successo da Frank Sinatra. Ma il pezzo fu scritto da Paul Anka, che nel 1967 ascoltò a Parigi Commed’habitude interpretata da Claude François, ne salvò la melodia e ne riscrisse completamente il testo in inglese. Canzone che fu interpretata anche da Elvis Presley per la prima volta nei leggendari concerti alle Hawaii del gennaio 1973, che ne ha fatto la versione migliore e più nota: basti pensare che la versione di Sinatra del 1974 al Madison Square Garden su You Tube conta 60 milioni di visualizzazioni, mentre quella di Elvis alle Hawaii 122, ed entrambe sono state caricate cinque anni fa sui canali ufficiali degli artisti – tra l’altro Elvis era un grande appassionato della canzone italiana, innamorato su tutti della voce di Beniamino Gigli: nel ‘60 incise It’sNow or Never/O sole mio e nel ‘70 You Don’t HavetoSayYou Love Me/Io che non vivo (senza te), versione originale di Giuseppe Donaggio e Vito Pallavicini. E da qui la versione italiana di Andrea Lo Vecchio, in ultimo interpretata anche da Andrea Bocelli. Quindi si tratta di una canzone del mondo e non solo italiana. Premesso che non si è artista se non si assume in sé un rischio, perché l’hai scelta?
So bene del fatto che questo pezzo esce dalla tradizione e che è stato un azzardo metterlo nel disco, ma ho voluto cantarlo lo stesso perché sono molto legato a questa canzone poiché un po’ rispecchia anche quella che è la mia biografia.
E cosa pensi dell’attuale produzione musicale italiana, sempre nell’ambito della musica cosiddetta leggera, e, più in generale, quanto positivo o negativo in questo specifico ambito è stato l’avvento del digitale e, poi, di internet?
Semplicemente che oggi si sale su un palcoscenico troppo di fretta e per fare tutto molto bene eccetto che cantare. Non si nasce artisti ma ci si può diventare. E per diventare artisti bisogna darsi la pazienza che richiede lo studio. Il talento è fondamentale, e chi dice il contrario sicuramente sbaglia. Senza talento non si arriva da nessuna parte, ammesso che si giunga mai a qualcosa. Ma per crescere il talento ha bisogno di un terreno che sia fertile. E l’unico fertilizzante utile a questo terreno dove coltivare il talento, è lo studio. E non credo sia necessario aggiungere altro.
So che tu sei molto legato al Maestro Antonio Juvarra. Parlami di lui, di cosa ti lega a questo illustre personaggio della musica mondiale, dell’arte Bel Canto. Quand’è, ad esempio, che vi siete incontrati e riconosciuti la prima volta?
Dico solo questo, perché altrimenti ci vorrebbe lo spazio di un intero libro per dire quanto il Maestro Juvarra sia stato importante per la mia carriera: il Maestro Juvarra ha salvato la mia voce, e per un cantate non c’è patrimonio più grande della voce.
Dopo tanti anni di carriera, di sacrifici e di studio, cosa pensi ti abbia dato il canto; cosa devi al Bel Canto?
Il canto riempie di senso i vuoti di cui, inevitabilmente, è anche fatta la vita. Il canto ha completato la mia vita.
In Melodie Italiane c’è una canzone che farebbe tremare i polsi e la voce di chiunque solo pensasse di interpretarla, Era de maggio, composizione del 1885, dove Mario Pasquale Costa musica i versi dell’insuperabile Salvatore Di Giacomo: la canzone napoletana cos’è e cosa rappresenta per la Storia del canto, e per la tua storia artistica?
La canzone napoletana è Il Canto. Per questo credo che per capire se si è portati al canto, bisogna partire con l’interpretazione della canzone napoletana. Ne sono convinto. E in questo sta il suo peso specifico nella Storia del canto. Quindi non mi sentirei cantante se non mi misurassi con la canzone napoletana.
Tornando alla parola, se dovessi racchiudere in una parolaquello che è il senso della tua Lezione, quale useresti?
La parola che userei è “parola”, perché bisogna sempre stare sulla parola, anche a discapito della musica: la parola è dotata di una musica di grado superiore perché è solo attraverso la parola che possiamo raggiungere il senso di ogni cosa, partitura compresa, che in assenza della parola manca, resta insufficiente.
MASSIMO RIDOLFI
Album Melodie Italiane: https://youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_mcnkq9Rl1WdAUYAGQ6iep7tX68FRTTa7g&si=lEB8cb-4bqOR15p7
IDEASUONI: https://www.ideasuoni.com/negozio-online/album-musicali/traini-melodie-italiane-detail.html