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RewuNulla mi fa incazzare di più di quando succede che l'artista è fatto passare per il povero mattoide di turno sempre in bilico sull'orlo del suicidio; e peggio mi sento quando un pazzo solo matto passa per artista. Quando invece non c'è nulla di più lucido e clinicamente sano di un'opera d'arte. Perché l'arte è il fare di quell'essere umano che, a un certo punto, che è sempre misterioso, riesce nel perfetto equilibrio tra cielo e terra. E un pizzico di cinismo, in quell'attimo di sospensione, pure ci vuole per fruttarlo al meglio, quanto basta.

È di questi giorni la vicenda personale (personalissima) che ha colto Paolo Cognetti, preda di una grave forma di depressione come, purtroppo, succede a milioni di persone ogni giorno senza finire sui giornali; ma il suo caso fa più scalpore perché trattasi di uno scrittore – che tra l'altro ha scelto di passare parte del suo tempo in montagna, solo o tra pochi. E allora giù tutti a scrivere del male di vivere (Eugenio Montale viveva benissimo, tanto per esser chiari, ignavo come pochi) dello scrittore (dell'artista in genere) come se fosse innata predisposizione e pegno all'arte –alcuni si sono addirittura spinti a criticare il suo stile di vita montano come, alla fine, non sano.

Di queste cazzate non ne posso più davvero – e tanto meno sopporto questo maledettismo d’accatto; d’Accattone proprio. La depressione è una malattia, la più grave, che può cogliere tutti i giorni chiunque, dalla massaia di Voghera al premio Nobel. Mauna cosa è certa: la depressione non produce nulla di buono, quindi né i manicaretti della massaia di Voghera né i versi di un grande poeta. La depressione è capace solo di annullare ogni talento umano fino all'annichilimento; fino al suicidio, che non è mai un atto di volontà ma di totale assenza di volontà, al contrario di quello che si possa pensare e dire.

È vero invece il contrario: solo il superamento di tale crisi nervosa può ridarci manicaretti succulenti e versi di poesia. Nel frattempo è utile curarsi della malattia, e cercare ogni giorno di resisterle attraverso la Bellezza, che si può manifestare solo nello spazio di guarigione, nella tregua che questa concede, perché di depressione maggiore non si guarisce – eh no!, non è di quei malanni che poi tanto passa, e chi dice che è guarito non era certo un depresso ma solo un malato di nostalgia, che è tutt'altra questione che ha invece a che fare, forse, più con il romanticismo che con la psichiatria –cioè, è una questione critica più che medica; che,probabilmente, riuscirei a risolvere pure io da qui (da queste pagine, intendo).

Certo, l'arte richiede sempre la sua porzione non piccola di dolore, ma questa prescinde dallo stato depressivo (o da qualsiasi altro malanno), che sempre, stupidamente, leggo e sento mitizzare, addirittura beatificare, peggio ancora maledire, come se gli artisti non potessero far altro nella vita che ammattire – ci sono artisti grandiosi che non sono per nulla ammattiti, e non hanno sofferto un solo giorno di malattia della loro vita, neanche un mal di denti c'hanno avuto questi – e grazie a Dio, così da non tediarci dei loro malanni. La porzione di dolore di cui scrivo io tratta di consapevolezza del dolore, e qui sta tutta la differenza del caso:soprattutto si distingue dal piagnisteo.

L'arte resta l'unica vera testimonianza storica di un popolo perché la più libera e lucida. Allora è vero che il depresso non può produrre arte quando il male lo stringe, perché non è più lucido e libero; e al ritorno alla vita non certo ci racconterebbe di quello che è stata la malattia ma di quello che non è più; quindi ci direbbe della Bellezza; solo della Bellezza! – che non si vuole qui significare con il bello.

La depressione è una gravissima malattia; e non c'è nulla di mitico, di beato, di maledetto e di Bellezza in essa; e nulla ha a che fare con l'arte ma molto con la psichiatria quindi, perché l'arte rimane la più sfolgorante e cinica testimonianza di vitalità possibile all'essere umano, perché da esso si distacca indifferentemente;allora è l'esatto contrario della manifestazione depressiva, che non brilla, che l’uomo avvinghia per ammutolirlo.

L'arte richiede energie, anche quelle atletiche, che il depresso nella fase acuta non ha, ridotto com'è alla sopravvivenza solo materiale dell'Io – ed è lì inchiodato che lotta dentro la più oscura dimensione della sopravvivenza.

Un abbraccio consapevole a Paolo Cognetti.


MASSIMO RIDOLFI

Ph.: Paolo Cognetti