Ercole De Berardis. Per me sarà sempre “il presidente”. Il presidente per antonomasia. Il presidente del Teramo. Otto stagioni che furono una bella avventura e che io segui giorno per giorno come cronista sportivo. Gli ero amico e vissi la sua avventura presidenziale come doveva essere vissuta. Ci legava un bel rapporto di amicizia, che però lungo l’arco della settimana subiva diverse evoluzioni, che andavano da un contrasto, più esibito che reale, all’indomani della partita della domenica, specie quando la squadra perdeva, ed io ero il severo critico censore, anche satiricamente nelle mie trasmissioni radiofoniche, al rapporto più sereno infrasettimanale, per tornare ad essere di contrasto, ma più contenuto, alla vigilia delle partite domenicali. Era un rapporto dialettico, sempre giocato sul filo dell’ironia e dell’autoironia. I ritmi televisivi erano quasi gli stessi di quelli radiofonici, dettati dagli stessi caratteri di fronteggiamento amichevole. Ci piaceva giocare al gatto e al topo. All’indomani di una clamorosa sconfitta a Macerata preparai per la mia rubrica settimanale “Quasy Goal” (si era ancora ai tempi di Tele T) un servizio assai duro che intitolai “Waterloo”. Registrai l’audio, il grande Mattu stava ancora montando il servizio mettendo sopra le immagini, quando “il presidente” mi telefonò e mi chiese perché dovevo parlare di Waterloo per la sconfitta di Macerata. Non volle mai dirmi chi nella mia redazione avesse fatto la spia e gli avesse rivelato il titolo e il tenore del servizio televisivo. Ci punzecchiammo al riguardo per tanto tempo, gli piaceva con il suo sorriso beffardo mostrare di avermi giocato piazzandomi una spia in redazione. Un’altra volta accadde che uno dei disegni del grande Perilli, che raffigurava la sua testa, scomparve al termine della trasmissione. Accadeva quasi sempre, perché i disegni di Perilli erano bellissimi, e io riuscivo a farne miei solo pochissimi, ma quello della sua testa mi sarebbe proprio piaciuto averla. Ma non la ritrovai. Un giorno mi disse, beffardo: “Ma che volevi la mia testa? Io alla mia testa ci tengo e me la tengo sempre io”. Così mi rivelò che il disegno in un modo o nell’altro era finito a lui. Un’altra spia? La sua umanità era grande e ne colsi i tratti nelle vesti di padre di una mia alunna che chiedeva notizie, a volte, con grande sensibilità e senza mai travalicare il confine dei ruoli. Come presidente fu un grande, esaltò la teramanità e gratificò a lungo la città sportiva, ma la città politica non lo ripagò nella giusta misura, e ne rimasero a simbolo i monconi di una curva est del vecchio Comunale che gli si promise di “aggiustare” e sopraelevare alla grande, ma i lavori rimasero a metà e non furono mai completati. Il suo amore per il calcio teramano fu grande, e per esso, da solo o quasi, raggiunse l’estremo limite delle sue possibilità da imprenditore. La sua umanità fu addirittura maggiore. Potrei raccontare aneddoti a centinaia, e mi commuoverei nel farlo. Passano nella mia mente e nella mia memoria immagini della nostra bella amicizia. Voglio solo ricordare una telefonata, l’ultima tra noi, fattami l’anno scorso. Per una quindicina di minuti rievocammo, sempre sull’onda di una ironica nostalgia, antichi momenti di gioia calcistica, con protagonisti lui, i suoi collaboratori, i suoi giocatori, i suoi allenatori, Rumi, Carmine, i fratelli di Federico, Vincenzo Gniscìte… Poi lasciò, e anche allora non mancarono i momenti autoironici, forse per coprire la malinconia, in un contesto caratterizzato dalla commedia, con protagonisti la meteora ascolana di Costantini e la sua porchetta in piazza. Subito dopo che lasciò, le cose non andarono troppo bene per la squadra, ma anche in quel momento non mancò l’autoironia: “Noi la squadra la same lasciate a Cerulle, mica a Sanguizie”. Ciao, Ercole, il tuo posto in Paradiso è biancorosso.
Elso Simone Serpentini