Tutte le carceri sono orribili,e ognuna lo è a modo suo. Alcune, però, sono più terribili di altre.
Come il carcere di Castrogno, uno dei tanti istituti penitenziari italiani al collasso. Chiamarlo carcere è un eufemismo: è un lager legalizzato, un inferno di sovraffollamento al 170%, celle fatiscenti prive di acqua calda, spazi angusti dove la dignità umana viene quotidianamente calpestata e nessuna prospettiva di reintegrazione. Un dispositivo di annientamento sistematico dove il degrado è una condizione permanente, e la disperazione è la norma.
Negli ultimi giorni, il carcere di Castrogno è tornato al centro dell’attenzione. Come se le condizioni dei detenuti non fossero già insostenibili, si è trasformato nell’ennesimo terreno di scontro politico. Inaccettabili le dichiarazioni della garante dei detenuti, che si è nascosta dietro la sentenza Torreggiani per sotterrare la realtà sotto il tappeto.
Nella freddezza della sua computazione metrica, che considerava tre metri quadri sufficienti per ciascun detenuto, si annullava completamente il concetto di vivibilità.
Nel frattempo, mentre si giocava con cifre e regolamenti, la realtà si imponeva con la sua brutalità. Nel carcere di Pescara, la morte di un detenuto ha scatenato una rivolta.
Dopo tutto questo, ci si sarebbe aspettati un cambio di direzione. E invece, ancora una volta, la risposta istituzionale è sempre la stessa: più personale penitenziario, la costruzione di più celle, più repressione. Un copione ripetuto all’infinito anche oggi durante il consiglio comunale straordinario convocato dal Comune di Teramo. Una toppa messa in fretta per la buona pace della coscienza sociale e permettere a tutti di continuare a vivere tranquilli la propria vita borghese.
È evidente che questo non è un piano per risolvere il problema. È un piano per renderlo eterno. Serve solo a legittimare il carcere, a riaffermarlo come unico orizzonte possibile.
La verità è che il carcere non è pensato per garantire sicurezza: è uno strumento di gestione della miseria e laboratorio di repressione. È la pattumiera sociale dove si seppelliscono i poveri, gli indesiderabili, chiunque non si adatti alla produzione e all’ordine.
Ecco perché non si vuole svuotarlo. Ecco perché si continua a parlare di riforme invece di mettere in discussione la sua stessa esistenza. Perché significherebbe ridisegnare la società dalle fondamenta.
Il punto non è rendere il carcere più umano. Il punto è smettere di considerarlo una soluzione. Serve un atto di rottura netto: chiudere Castrogno.
Perché se il carcere è la risposta, allora la domanda è sbagliata.
Negli ultimi anni, anche una possibile amnistia è stata bandita dal dibattito pubblico. Troppo pericolosa, troppo eversiva. Il ministro Nordio ha dichiarato che concederla dimostrerebbe la debolezza dello Stato.
Ancora una volta, la giustizia diventa un braccio di ferro. Perché ammettere che il carcere è un fallimento significherebbe smantellare un intero impianto di dominio.
L’amnistia in nome della libertà, chiesta a gran voce dai detenuti e detenute, è uno necessaria in un sistema che usa il carcere come una discarica sociale. È la risposta immediata a una politica fallimentare che da anni ci vende sicurezza mentre costruisce solo repressione e sofferenza.
E allora la soluzione non è rendere più vivibile un’istituzione ingiusta, ma liberare chi oggi ne è prigioniero e restituire dignità a chi è stato sepolto vivo dietro quelle mura.
E se lo Stato si rifiuta di considerare questa possibilità, lo fa per mero calcolo. Perché il carcere, così com’è, gli è utile: serve a mostrare il pugno duro, a rassicurare l’elettorato, a mantenere in piedi un sistema fondato sulla punizione anziché sulla giustizia sociale.
Perché andrebbe ribadito ancora una volta che tutto quello che accade a Castrogno non si tratta di un semplice malfunzionamento del sistema carcerario, ma ne rappresenta la sua logica più profonda.
Il carcere non è la soluzione.
Il carcere è il problema.
Ecco il nostro comunicato, grazie a chi ci darà spazio