Non credo che la città di Teramo, dal secondo Novecento a oggi, abbia avuto figlio più innamorato della sua Storia e del suo patrimonio culturale del Maestro Sandro Melarangelo, un artista che ha sempre posto l’uomo innanzi alla sua opera; l’uomo e la sua lotta verso una libertà finalmente e veramente democratica dove sia annullata qualsiasi prevaricazione dell’uomo sull’uomo, tornando alla lezione marxista, lente infrangibile nell’ottica dell’artista teramano: è da qui che da sempre ha osservato e sofferto le ingiustizie del mondo.
Lo raggiungo presso la galleria d’arte al “Ristretto” di Nicola Rossi, in via Mario Capuani 69 a Teramo, che gli ha dedicato una retrospettiva titolata “Totò e l’avanspettacolo”, visitabile fino al 6 marzo, che lo pone a confronto con il padre Giovanni, specularmente, ponendo le opere le une di fronte alle altre, proponendo di Sandro Melarangelo degli acquerelli ispirati all’opera del padre, un suo omaggio elaborato negli anni ‘10 e ‘20 di questo secolo che, sorprendentemente, lo allontana da quella che è stata da sempre la sua vena di ricerca tutta dedicata ai temi della lotta civile. Nella piccola ma ricchissima sala espositiva troviamo anche un quadro di suo figlio Marino, terza forza pittorica della famiglia Melarangelo.
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Maestro, ricorda la sua prima volta davanti al cavalletto –intendo dire quando è successo che ha dipinto il suo primo quadro, cioè quell’opera che ha iniziato la sua ricerca civile attraverso la pittura?
Vivevo assieme a mio padre. Mio padre aveva studio fuori casa. Però, aveva invaso comunque la casa di quadri e di cavalletti, perché dipingeva anche dentro casa. Dipingeva in cucina. Dipingeva in camera da letto. Dipingeva ovunque. Noi avevamo un cane che si chiamava Argo, che aveva la coda pelosissima. E passava con la coda vicino alla tavolozza di mio padre e così, scodinzolando, si imbrattava dei colori e quando usciva veniva ammirato per questa coda arcobaleno che si era fatto involontariamente. Quindi non so quale sia stato il mio primo quadro, ma ho tentato usando la tavolozza di mio padre: forse il primo quadro è stato un imbonitore che ho ritratto per la strada, in piazza, perché ero influenzato dal lavoro di mio padre, che dipingeva questi artisti di strada, il circo di periferia, il circo povero. Credo che sia stato il primo. Ma dipingevo in continuazione usando i colori di mio padre.
Quindi l’influenza di suo padre è stata iniziatica.
Certamente.
Con suo figlio Marino, iMelarangelo sono giunti alla terza generazione di artisti. E tutti diversi per poetica e tratto, giocoso direi Giovanni, concreto direi Sandro, concettuale direi Marino; e in tre coprite a oggi un secolo e un quarto di Storia di questo Paese nella pittura. Trovo straordinaria questa varietà di stili e di poetiche dove, però, si trova al centro sempre la ricerca testimoniata verso l’uomo inteso come umanità. È d’accordo con questa mia troppo breve sintesi critica del percorso artistico dei Melarangelo?
Pienamente d’accordo. Siamo tre persone che si sono sempre espresse liberamente, senza mai imporre nulla all’altro; neanche mio padre mi ha imposto mai nulla.
Quindi tra di voi c’è stata sempre un libertà di scelta tecnica e di soggetto.
Certo. Certo. Ognuno ha operato con la propria personalità e la propria idealità. Anche se abbiamo qualcosa in comune, ovviamente.
La fede politica prima di tutto.
La fede politica soprattutto, perché papà è stato il primo segretario della federazione giovanile comunista, nel 1921, un fondatore diciamo del partito. E ha sofferto tanto. Ha sofferto tantissimo durante il fascismo. Perse il posto di lavoro in banca per motivi politici. Mentre lui affrontava le tematiche sociali sempre con sentimento, con malinconia pure, in rapporto al circo povero, ai guitti, in rapporto con il teatro della povera gente insomma,io ho sentito la necessità invece di affrontare le tematiche sociali con meno sentimento e senza malinconia, portando così in primo piano le classi disagiate, le classi più povere, ma soprattutto l’umanità degli sfruttati. Non a caso ho dipinto gli schedati, i censurati, i perseguitati; le lotte dei lavoratori ho dipinto; sono stato più vicino alle istanze sociali ecco, evitando qualsiasi edulcorante. E Marinopenso che sia altrettanto attento a questi temi, però, lui guarda, osserva più dall’interno l’esistenza umana; cioè non è interessato alla figurazione esplicita ma riporta quello che sta dentro all’uomo. Tenta di fare questo.
Marino credo interiorizzi più il messaggio, detto più in chiave psicanalitica probabilmente. Trovo straordinario questo vostro percorso parallelo ma coeso.
Guardiamo tutti e tre all’umanità che ci circonda.
Secondo me vi accomuna la lente marxista attraverso la quale guardare il mondo.
Penso di sì. Tenga conto che noi non siamo mai stati imprigionati dal mercato. Ecco perché liberamente dipingiamo anche le angosce dell’uomo, delle classi umili, delle classi povere.
Non avete mai risposto alle mode di mercato, perché l’arte, lo sappiamo, soprattutto l’arte figurativa, va molto spesso dietroalle richieste del mercato; cioè più spesso risponde alla domanda, che è una condanna. Voi invece avete proseguito le vostre ricerche indefessamente, senza distrazioni.
Quando abbiamo dipinto non abbiamo mai pensato all’immagine finalizzata a una decorazione. Una immagine da mettere in un ambiente a decorare.
Mai l’arte per l’arte, si può dire più che mai nel vostro caso, perché sia sempre un interrogarsi sulle cose del modo.
Ho fatto quadri proprio provocatori. Di denuncia proprio.
Con una certa forza anche volutamente esplicita, così per provocare una crisi, si potrebbe dire, un moto della coscienza.
Come quando ho dipinto la vita delle prostitute, il loro sfruttamento. La povera donna sulla strada. Poi gli schedati per ragioni politiche, gente che era ricordata solo perché schedata.
Io sono sempre più convinto che l’arte sia la cosa più importante che ci sia.
Credo sia così. L’arte è l’espressione dei sentimenti dell’uomo; dei sentimenti più che dell’ufficialità della parola. L’arte è il sentimento che sta dietro l’ufficialità della parola.
Non si fa mai arte per caso, no. Un po’ è una missione. È una vocazione.
È una vocazione. Si sentono alcune situazioni che ti prendono in modo particolare. E così senti il bisogno di esternarle, di esternareil tuo giudizio; la partecipazione tua a quelle situazioni. E poi ci sono dei momenti legati alla descrizione della Storia, dove gli umili, gli oppressi devono essere considerati. Con questo spirito ho dipinto un murale sulle lotte operaie che hanno interessato la vallata del Vomano degli anni ‘60, ‘70. Così come ho pure dipinto la storia della Resistenza teramana. Cioè ho dipinto quei momenti importanti della vita civile dove il sentimento umano si deve confrontare con il movimento reale della collettività.
Quindi oggi più che mai fare arte è un atto di Resistenza?
Sì! E do un giudizio da marxista. Perché oggi c’è ancora più forte il dominio del mercato. Il mercato domina le nostre vite più che mai. Non a caso Lenin diceva che l’imperialismo è la fase suprema del capitalismo. Un’analisi attualissima. Bene, c’è il mercato che ci condiziona; che condiziona persino l’espressione artistica. E se non ti sottrai alla dittatura del mercato, ti costringi, guardando i successi del mercato nel mercato, a fare soloquelle cose che sono avvicinabili ai detentori del potere, cioè che non li disturbi.
Che non disturbi i potenti?
Che non disturbi i detentori del potere.
I potenti sono stati sempre i ricchi alla fine. Oggi più che mai. Che sono arrivati proprio al potere politico diretto.
Eh sì, purtroppo.
MASSIMO RIDOLFI