
La tragedia che il 3 novembre 2025 ha colpito lo Yalung Ri, travolgendo una squadra di scalatori e portando alla morte di diversi alpinisti, apre oggi interrogativi cruciali sul sistema dei soccorsi in alta quota in Nepal. Ciò che emerge dal racconto di Phurba Tenjing Sherpa, protagonista diretto delle operazioni, e pubblicato stamattina sulla sua pagina social non è soltanto la cronaca di un disastro naturale, ma anche la denuncia chiara di ritardi, omissioni e mancanze strutturali che potrebbero aver influito sull’esito dei soccorsi.

LA CHIAMATA D’EMERGENZA E IL PRIMO ANELLO DEBOLE: I TEMPI DI RISPOSTA
Alle 10:27, mentre si trovava nel villaggio di Naa (4.200 metri), Phurba riceve un messaggio disperato:
“Valanga d’emergenza… Ho bisogno di un elicottero… Alcuni sopravvissuti stanno morendo…”
La richiesta è chiara, urgente, inequivocabile.
Phurba contatta immediatamente Mingma Dai di Heli Everest, che si mette in moto senza esitazioni. Ma le condizioni meteo complicano tutto: l’elicottero non riesce ad arrivare prima delle 17, e quando raggiunge la zona la notte impedisce qualunque intervento mirato.
Questa prima criticità, però, è solo l’inizio.
PRIMO PUNTO CRITICO: DOVE ERANO GLI ALTRI ELICOTTERI?
Secondo Phurba, per le prime 48 ore il loro è stato l’unico elicottero presente nell’area della valanga.
Le altre due compagnie, che avrebbero dovuto rispondere immediatamente, non si sono viste.
Un dato grave, se confermato: in un contesto dove la vita dei sopravvissuti si gioca nei primi minuti, una simile lentezza solleva interrogativi drammatici:
Perché nessuna autorità centrale ha coordinato l’invio dei mezzi disponibili?
Perché due compagnie di elicotteri non hanno risposto agli allarmi?
Chi doveva garantire l’attivazione del protocollo di emergenza?
Nessuna risposta ufficiale è ancora arrivata.


SECONDO PUNTO CRITICO: LA BUROCRAZIA CHE UCCIDE
L’accusa più pesante di Phurba riguarda il permesso di volo.
La zona era classificata come “riservata” e l’autorizzazione per le operazioni di salvataggio ha subito ritardi incomprensibili.
“Questo ritardo è costato tempo prezioso — abbiamo quasi perso due sopravvissuti per questo. Credo che altre vite si sarebbero potute salvare”.
Il nodo qui è operativo e politico:
Chi deve approvare i voli di emergenza?
Perché la procedura non prevede un’autorizzazione automatica in caso di valanga?
Quale ministero o ufficio ha rallentato l’intervento?
Non esiste ancora una ricostruzione trasparente.
IL TERRENO, LA NEVE, LE ATTREZZATURE: COSA È MANCATO DAVVERO
Per giorni, squadre locali e volontari hanno lavorato senza sosta. Ma secondo Phurba, erano sottodimensionati rispetto alla portata del disastro.
Solo dopo pressioni insistenti sono arrivate guide IFMGA e tecnici Recco, dotati di strumenti avanzati per rilevare dispersi sotto metri di neve indurita.
Questo solleva un’altra domanda centrale:
Perché le squadre specializzate sono state attivate solo in un secondo momento?
La risposta potrebbe essere una miscela di scarsa organizzazione, mancanza di protocolli chiari e sottovalutazione dell’emergenza.
LA QUESTIONE DELLA PREPARAZIONE MILITARE
Phurba ringrazia l’esercito nepalese e l’APF, ma evidenzia una carenza strutturale:
Mancanza di addestramento specifico per il soccorso ad alta quota
Mancanza di attrezzatura adeguata
Procedure non aggiornate alle condizioni reali dell’Himalaya
Non accusa gli uomini, accusa il sistema.
E il sistema, nelle sue parole, ha fallito.
TERZO PUNTO CRITICO: PERCHÉ SI È SBAGLIATA LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO?
La valanga è avvenuta in un’area nota per essere instabile in condizioni meteo variabili.
Le domande che oggi emergono sono:
C’erano allerte meteo sufficienti?
Le squadre sul campo erano state informate?
Le autorità avevano aggiornato i protocolli di rischio stagionali?
Se la risposta fosse no, ci troveremmo di fronte a un’altra falla del sistema di sicurezza.
LA PARTE PIÙ DOLOROSA: I DISPERSI NON RECUPERATI
Dopo sei giorni di lavoro ai limiti delle possibilità umane, le ricerche sono state sospese.
Sotto metri di neve compattata, come pietra, sono rimasti: Padam e Marco Di Marcello
Per Phurba, due fratelli. Per gli esperti, due vite che forse potevano essere salvate — o almeno recuperate — con una risposta più rapida e coordinata.
UNA STORIA CHE CHIEDE RISPOSTE
La tragedia dello Yalung Ri non è solo un dramma umano, ma il campanello d’allarme di un sistema che va rivisto radicalmente.
Ecco i punti che necessitano un’indagine formale:
Perché gli elicotteri non sono decollati subito?
Perché il permesso è arrivato in ritardo?
Perché non esiste un protocollo rapido per le zone riservate in caso di valanga?
Perché le squadre specializzate non sono state mobilitate immediatamente?
Perché l’esercito non è dotato di competenze avanzate per il soccorso in alta quota?
Chi ha avuto la responsabilità del coordinamento iniziale?
Quante vite sono state perse a causa di questi ritardi?
Oggi, mentre la comunità degli scalatori piange le vittime, resta aperta la questione più urgente:
la tragedia dello Yalung Ri è stata una fatalità inevitabile o una catena di errori evitabili?
Finché queste domande rimarranno senza risposta, nessun scalatore potrà sentirsi davvero al sicuro sulle montagne del Nepal.

