Pensato forse come rilettura in chiave 4.0 di “Brutti, sporchi e cattivi”, ma senza la mano ispirata di Ettore Scola, “Favolacce” è un film di poderosa bruttezza. Esasperatamente lento e terribilmente noioso come un film cecoslovacco Anni ‘70, questa tanto decantata opera dei trentunenni Fabio e Damiano D’Innocenzo è la compiuta dimostrazione di una teoria antichissima, quella che vuole i gemelli in simbiosi assoluta, anche quando pensano. Purtroppo, anche quando pensano le scene di un film, che archivio tra i peggio riusciti della mia personale filmoteca. E se riesco a comprendere, soffrendone da italiano, perché la giuria della Berlinale abbia assegnato un orso d’argento alla sceneggiatura, trasformando in statuetta un diffuso pensare sull’Italia gomorrizzata, i Nastri d’argento non me li spiego. Sarà stata l’angoscia della clausura pandemica, forse, a spingere la giuria verso questo film parimenti angosciante, ma davvero non capisco i premi. Personaggi sbagliati: i bambini sono troppo belli e troppo educati per appartenere alle famiglie trucide e i genitori sono troppo trucidi per vivere in case troppo borghesi per loro, nelle quali si lamentano di essere disoccupati girando in Range Rover. Dialoghi inappropriati: cercano - senza riuscirci - di costruire l’atmosfera del suburbio romano, solo giocando su parolacce da stereotipo e su bullismi mignottari ai limiti del farsesco. Quella che manca, soprattutto, è però la storia. Tra dodicenni angosciati da pulsioni sessuali tutt’altro che adolescenziali, con complicazioni paranoiche che evocano quei film svedesi claustrofobici e introspettivi, e che poi si scoprono bombaroli in erba, e genitori molto meno risolti dei loro stessi figli, il film non ci offre un percorso narrativo, ma si limita a confondere frammenti di vite marginali, accomunate tutte da un senso di vuoto che è, prima di tutto, nello spunto artistico degli autori. Dispiace per Elio Germano, costretto ad imitare sé stesso, ma “Favolacce” sta al cinema (anche di genere) come Spinaceto sta a piazza di Spagna. Anche l’epilogo finale del suicidio collettivo è catapultato nella narrazione senza preparazione (il professore pazzo non regge neanche nella scialba interpretazione dell’attore) e la coppia dei genitori infanticidi appare nel film talmente poco, che non se ne intuisce la gravità del vissuto. In conclusione, un film totalmente da evitare, nel quale il manifesto registico è nella canzone dei titoli di coda “bisogna morire”, tutto il film serve solo a definire l’arma del delitto. La noia.
IL CRITICONE
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