Ancora con la bocca amara per la difficile digestione di Parasite, cerco un film da domenica pomeriggio, di quelli che ti rilassano senza impegno. Invece, la decima musa scompagina i miei progetti e, per ripagarmi della tortura coreana, mi offre un’emozione irripetibile. In una delle caselle dell’on demand di Sky, occhieggia tra i titoli di Premium uno dei film che più amo, uno dei miei cinque titoli di sempre, un film che cercavo da anni: “In nome del Papa Re”. Capolavoro assoluto di Luigi Magni, un affresco di celluloide, con un Manfredi in stato di grazia che regala al suo monsignor Colombo da Priverno un’interpretazione memorabile, cesellata sui dettagli anche minimi, un vero diamante attoriale, incastonato in una montatura registica di livello irripetibile. Ruolo che lo arricchì di un David e di un Nastro d’argento.
Confesso che ho, per quel periodo, per la storia di fine papato, per gli ultimi anni del Regno, una grande passione. Le atmosfere degli ultimi cascami del Medioevo, rigurgitanti dopo la parentesi della Repubblica Romana, mi affascinano. Così come subisco la fascinazione di quella Roma, antica come la storia, ma pronta a veder entrare a Porta Pia il mondo nuovo. L’Italia, finalmente unita. E torno al film: non c’é sequenza che non sia un affresco, non c’è dialogo che non sia perfetto nei toni e negli accenti, anche dialettali. Niente di falso, di impostato, di artefatto, tutto vero, credibile, denso come le emozioni quando non sono costruite. Il Papa nero di Salvo Randone é di una pacata durezza feroce, di una implacabilità profonda come un incubo, ma l’iconico nero gesuitico soccombe al nero dei paramenti di monsignor Colombo, nella messa funebre che chiude il film, consegnando alla storia del cinema quella comunione negata che vale da sola dieci Parasite.
IL CRITICONE
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