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parasiteHo visto Parasite. Anzi: mi sono sforzato di vedere Parasite. E ancora di più mi sono sforzato di capire perché abbia vinto l’Oscar. Anzi, perché ne abbia vinti quattro. E una palma d’oro a Cannes. E altri premi. Tanti. Davvero, non lo capisco. E probabilmente, non ho capito il film. Ma non mi è piaciuto.Perché è un film brutto. Noioso, scontato, prevedibile, monotono (nel senso letterale di “un solo tono”), rivelandosi addirittura piatto e banale nella costruzione di quella scena decisiva, la festa del quasi invisibile Da Song, nella quale il regista tenta qualche tarantinismo senza ispirazione. Il pluripremiato Bong Joon Ho, costruisce nell’ambiente claustrofobico di una villa da straricchi una storia di miserie umane davvero infime, ma vissute con compiaciuta soddisfazione da una famiglia di truffatori senza fantasia e senza l’evidenza di una intelligenza, che dovrebbe essere la linfa primaria di una truffa. Anche la sceneggiatura (anche quella premiata) mi è sembrata cosa da poco e, confesso, mi dispiace non aver avuto la possibilità di ascoltarlo in lingua originale (è in Koreano), per capire se i dialoghi abbiano anche in origine quella inaccettabile eleganza - a tratti quasi colta - che accomuna tutti, ricchi e poveri, fortunati e derelitti, gente che vive tra autisti e governanti e gente che, al contrario, deve scroccare una connessione wi-fi e vive in uno scantinato maleodorante, cenando alla bell’e meglio davanti ad una finestra con vista su un improvvisato vespasiano per ubriachi dalla vescica debole. Il conflitto di classe è risolto in maniera davvero elementare, il messaggio morale della mancata unità tra i miserabili (che con i ben più noti predecessori transalpini condividono solo l’underground), è meno credibile di una baruffa tra ambulanti sulla spiaggia, e il crescendo atmosferico che va dai fulmini all’alluvione, se nelle intenzioni del regista deve fare da colonna sonora della vicenda, in un crescendo drammatico, è molto meno riuscito dell’indimenticabile devastazione di “Arriva la bufera” di Daniele Luchetti. Addirittura macchiettistico (ben oltre la scelta stessa del regista) la satira contro la Korea de Nord e i suoi missili, affidata alla governante sciatta e volgare.E mi chiedo se, in fondo, non sia proprio questa la chiave del film: distruggere ulteriormente l’immagine della dittatura di Kim, premiando un film sudcoreano. Una sfida, una ripicca. Ma è l’unica spiegazione che riesco a darmi per i premi vinti da uno dei film peggio riusciti che io abbia visto negli ultimi anni.

IL CRITICONE