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annibelliNiente. Non c’è niente da fare. Ogni volta che mi capita di vedere un film di Muccino, alla fine mi chiedo perché gliel’abbiano fatto girare. Anche stasera, dopo aver visto il tanto promosso (nel senso del marketing) “Gli anni più belli”, la sensazione è esattamente questa. Perché girarlo? Presentato come “affresco generazionale”, annunciato come “rilettura attenta di un quarantennio di vita italiana”, il film è un remake poco ispirato e molto mal copiato di quel capolavoro vero che è stato, è e sempre sarà “C’eravamo tanto amati”. Peró, Muccino non è Scola (e non lo sarà mai), e siccome firma anche il soggetto, va sottolineato che non ha neanche la mano felice di Age & Scarpelli, visto che non gli riesce neanche di copiare. In un imbarazzante tentativo di ripetere, attualizzandoli, i protagonisti, Muccino sceglie tre nomi forti del cinema contemporaneo, come Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria e Kim Rossi Stuart, costretti però a confrontarsi rispettivamente con Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Stefano Satta Flores, che offrirono una prova che ha consegnato il loro film all’elenco dei 100 da salvare della storia del cinema italiano. I “nuovi” sono bravi, ma è tutta l’architettura del film che non regge. È superficiale, approssimativo, scontato ai limiti del banale, mortificando anche le potenzialità di attori che hanno scolpito ruoli come il delizioso D’Artagnan della “Penultima missione”, o l’indimenticabile Jeeg. Di Rossi Stuart non scrivo nulla, perché continuo a considerarlo inespressivo come il miglior Raul Bova. Voglio, invece, scrivere di Emma Marrone, una vera rivelazione, in una parte minore certo, ma interpretata con una verità è una credibilità che mi fanno sperare di rivederla sul grande schermo. Ha l’immediatezza del talento, così come Micaela Ramazzotti, perfetta pur se imbrigliata in un ruolo che le abbiamo già visto indossare. Candidato - tant’è - ad una decina di nastri d’argento, senza fortunatamente vincerne alcuno, ma premiato dagli incassi pre-covid al botteghino, “Gli anni più belli” lascia in bocca il sapore del “tutto già visto”. A differenza del capolavoro di Scola, che pennella amarezze di vita vera è vissuta, il romanzetto di Muccino è una commediola senza spessore, con un happy ending che rende ancora più inutili le oltre due ore mucciniane. A segnare la portata della mancata riuscita del tentativo di Muccino, c’è la scena della trattoria della “rimpatriata”, che oggi è il localetto poco credibile di un ancor meno credibile Enzuccio, e ieri era quel “Re della mezza porzione”, che serviva ai tavoli un’Italia forse perduta, ma per sempre nostra.

IL CRITICONE