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Schermata_2022-10-20_alle_00.19.56.pngAvevo deciso di non vederlo. Anzi: avevo giurato a me stesso che no, non avrei mai guartdato “Tapirulàn”, opera prima registica di Claudia Gerini, interpretata dalla stessa. L’avevo deciso, perché la Gerini non mi ha mai convinto del tutto. Anzi: mi ha sempre convinto pochissimo. A parte qualcosa con Verdone, ma molto limitante, e una simpatica commediola con la Capotondi e la Impacciatore, cioè “Amiche da morire”, per il resto l’ho sempre trovata, forzata, sopra le righe e comunque confinata in una caratterizzazione molto parziale e poco adattabile. So benissimo che ha lavorato anche all’estero e che i francesi, bontà loro, l’hanno apprezzata, ma a me non piace. Quindi, non volevo guardare “Tapirulàn”, poi però - complice la proposta di sky - ho deciso di provarci.

E ho fatto male.

Il film dimostra quanto sia difficile passare dietro la macchina da presa, per chi è abituato a starle davanti.

E’ un film claustrofobico, nel quale il “Tapirulàn” non è solo un titolo, ma il set stesso, anzi: il protagonista (tanto che non mancano di presentarcene marca e modello, con una pubblicità occulta affatto occulta). E’ l’ossessivo scorrere di quel tappeto, che scandisce lo scorrere stesso delle storie che si intrecciano, tutte raccontate dai clienti virtuali della Gerini, psicologa on line, che attraverso uno schermo appoggiato - manco a dirlo - sul “tapirulàn”, interagisce con una multiforme platea di disagiati.

Scopo del film, e non sto spoilerando visto che è tutto fin troppo intuibile, è il tentativo di raccontare il mal d’anima della “counselor” che cerca di risolvere quelli degli altri. Banale, quanto scontato, il film non decolla, anzi: mentre il suono stesso del tappeto diventa fastidioso, almeno quanto l’eterna corsa della Gerini, la storia si appiattisce, fino a disvelare la ragione profonda di quel correre senza andare da nessuna parte, che è umanamente grave, ma cinematograficamente disarmante, perché vista e rivista, usata ed abusata.

E poi, dopo Will Hunting, sinceramente mi risulta difficile appassionarmi a storie di “medici della mente” che diventano pazienti dei loro pazienti, in un confondersi non confuso di ruoli e di confessioni. Il film della Gerini scivola, anche, sulla romanizzazione macchiettistica di alcuni personaggi (l’erotomane che s’eccita per i piedi è imbarazzante, nella sua banalità), e in centocinque minuti di onnipresenza geriniana sullo schermo riesce, alla fine, a far germogliare la segreta e inconfessabile speranza che, su quel “tapirulàn” scivoli e voli spinta dal tappeto, come nei video di Instagram. Per avere, almeno, un po’ di “azione”.

IL CRITICONE



SCHEDA DEL FILM