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CortellexNon posso unirmi, e sinceramente mi dispiace, al collettivo peana che ha accompagnato, accompagna e di certo accompagnerà “C’è ancora domani”, film di e con Paola Cortellesi. Perché non m’è piaciuto.

Ma neanche un po’.

Ero andato al cinema con la migliore predisposizione possibile, carico del bagaglio di ritorno di tutte le critiche lette, dei commenti ascoltati, del plauso unanime che il film e la stessa regista hanno incontrato ovunque, invece mi sono ritrovato in un’esperienza dolorosa, e non nel senso della percezione emotiva dell’opera, ma in quella del patimento dello spettatore, costretto a confrontarsi con un film, a mio avviso, totalmente sbagliato.

A partire dalla ricostruzione storica, per arrivare alla caratterizzazione dei personaggi.

Andiamo per ordine.

Siamo a Roma, alla vigilia del referendum costituzionale, prima occasione di voto aperta anche alle donne. 

Delia (Paola Cortellesi) è la moglie di Ivano (Valerio Mastrandrea) un marito - padrone, uno che parla con le mani, che costringe la moglie al silenzio, che la mortifica in ogni modo e in ogni occasione, che la considera inferiore in quanto donna. Senza diritto di parola. Lo spunto narrativo è potente, ma viene declinato in maniera grossolana, scontata e prevedibile, addirittura macchiettistica quando si entra nella camera di nonno Ottorino, dove il dialogo scivola in una sciatteria romanoide, talmente greve da sfiorare il vanziniano, tanto che se in quel letto non ci fosse stato Giorgio Colangeli ma Maurizio Mattioli, non mi sarei accorto della differenza. La verità, è che la cifra stilistica della Cortellesi regista non si intuisce, visto che cerca di scolpire uno spaccato del più basso proletariato romano dell’immediato Secondo Dopoguerra, attingendo a quelli che sono i suoi evidenti, altissimi riferimenti artistici, da Pasolini a Fellini, ma lo scantinato nel quale vive la famiglia Santucci non ha la drammatica credibilità del suburbio di “Accattone”, così come nella danza cruda dell’ennesima “corcata”, Ivano e Delia non evocano le trasposizioni metaforiche dei volteggi del Maestro riminese. La Roma della Cortellesi è una città imbruttita e indurita, ma scontata al punto da diventare poco credibile, senza quella connotazione di condivisa umanità che, invece, in quella Roma fu la chiave salvifica di una popolazione che sapeva, come ha sempre saputo, che doveva e poteva contare solo su sé stessa, perché “I papi passano e le corone cadono, ma er popolo sempre povero rimane”, ricordava quello che Costantino Maes definì un “torso informe” e che er popolo chiamava Pasquino. Il  cortile romano, che fa da palcoscenico allo svolgersi delle vite dei protagonisti, esprime tutto il peggio di quella popolanità capitolina, lasciando un troppo minimo accenno al core de Roma solo in una tovaglia, prestata per un evento importante, come il fidanzamento della figlia Marcella. Troppo poco e troppo facile, in un film che ha anche la pretesa di farsi tributo a quella Roma perduta, forse l’ultima vera prima dell’imbarbarimento che, cominciato qualche anno dopo quel 1946, farà della Città Eterna l’invivibile metropoli di oggi. 

Sulla caratterizzazione dei personaggi, c’è poco da dire: sono abbozzati anche bene, ma restano un abbozzo. Mastandrea è nel suo, ma costruisce un marito - padrone che, nella necessità della violenza (fisica e verbale) arriva a rendersi poco credibile, eccessivo nella costruzione del personaggio e a tratti vagamente inespressivo, confinato in una rigidità mimica che non gli permette di sfaccettare il ruolo come e quanto avrebbe potuto, e a mio avviso dovuto fare.

La Cortellesi è brava, non si discute. Sente il suo ruolo di madre e donna votata all’eterno sacrificio, capace di incastrare mille lavoretti sottopagati, pur di portare qualche lira a casa e di concedersi una “cresta”, che magari le consenta di accumulare qualche soldo per l’abito da sposa della figlia. Senza trucco, sfiorita nella sua ancora intuibile bellezza, dimessa nel vestire, condannata all’eterna parannanza che si fa divisa del suo vivere schiavo, Delia è una donna svuotata, rassegnata, senza futuro e con un presente non vissuto. Un ruolo tragico, che la Cortellesi s’è cucito addosso e che, di sicuro, è il meglio riuscito del film, pur non sfiorando le vette di quella “Mamma Roma” che Anna Magnani rese eterna e che, nell’intreccio incolore del film (inteso quale scelta di girarlo in bianco e nero), mi è sembrato più volte di sentire evocato. Con poca fortuna. Chiudo sui personaggi con un applauso ad Emanuela Fanelli, la sua Marisa è perfetta, ma sulla “presentatrice” di Lundini non sono obiettivo, visto che la considero uno dei più grandi talenti comici femminili italiani. 

La storia, infine. Credo che la grande fortuna che questo film sta incontrando, sia figlia più della rincorsa politico - culturale alla riaffermazione del ruolo della donna, che alla reale portata dell’opera. Per carità, quello del voto alle donne fu momento importantissimo, uno di quelli nei quali la Storia fa una curva, e mi piace il volergli attribuire il valore liberatorio di una rivoluzione,  che inizia con quella tessera elettorale, che si fa amoroso messaggio da tenere segreto.
Ma credo che il momento sia enfatizzato troppo, ben oltre quello che fu il reale portato storico del fatto.
Sì, quel giorno le donne votarono, e Delia in quell’urna infila la sua vita da vittima sacrificale, per trovarne una nuova all’uscita, già sulle scale del seggio (la scena delle donne che fanno gruppo contro Ivano, è la più riuscita del film), ma è il racconto utopico di una storia che non è vera.
Quel giorno le donne votarono, certo, e per la prima volta e ebbero diritto alla loro espressione politica, e probabilmente sì, presero voce e coraggio, ma non cambiarono l’Italia.

Quel giorno scelsero di rendere “Repubblica” il Paese nel quale, 77 anni dopo, abbiamo dovuto dare un nome a quella violenza, perché gli Ivano sono sempre di più e per proteggere le Delie non basta una panchina rossa. Le donne votano da 77 anni, anche per eleggere quel Parlamento che, pochi mesi fa, contro il femminicidio ha dovuto scrivere una legge e creare una commissione permanente.
Quando esco dal cinema, le agenzie hanno appena battuto la notizia del ritrovamento del corpo di Giulia. Uccisa a 22 anni. Per lei, non c’è ancora un domani…

IL CRITICONE