Nulla è più labirintico di un labirinto. In Saltburn (su Prime), compiuto affresco cinematografico di Emerald Fennell, alla sua seconda regia dopo “Una donna promettente” (0scar per la sceneggiatura originale), il labirinto è il protagonista assoluto.
Di tutto.
Labirintico è infatti l’intreccio insondabile delle passioni umane, che animano tutti i personaggi del film, a modo loro persi ognuno in un proprio labirinto personale, dal quale cercano di emergere cercando di illudersi che siano emozioni, quelle che vivono, e amori, quelli che provano, non intuendo quanto tutte e tutti siano solo la faticosa ricerca di una via d’uscita del labirinto, anzi: dai labirinti.
Ambientato nel 2006, in coincidenza con l’ingresso di quella classe ad Oxford, il film non brilla per originalità nella costruzione ambientale, e non è un caso. L’Inghilterra delle grandi università da ricchi, e quella di una nobiltà che rammenta ma non rivive antiche grandezze, sono infatti il fondale prevedibile e a tratti stereotipato dell’intreccio narrativo, ed è quello che la regista vuole. Che siano prevedibili le atmosfere snob dell’antico ateneo, così come che siano “inglesi” fin oltre l’accettabile, i signori di Saltburn, confinati in un mondo tutto loro, in un labirinto di convenzioni e disturbi mentali, è infatti necessario perché l’agire dei personaggi scardini tutto. Fluidi nelle loro sessualità, molto più della generazione Z, i protagonisti del film sono anime in affannosa ricerca di una risposta, che non troveranno. A tratti, si intuisce il velo di decadenza collettiva, di scomparsa dei valori e dei progetti di vita, che era il sottofondo doloroso dell’indimenticabile “American beauty”. È un mondo, il nostro, che ha intuito, finalmente, di essere condannato a non sopravvivere al labirinto, nel quale ci è concessa la sola illusione di essere artefici del nostro destino. Non a caso, il perno narrativo se film si chiama Felix, ed è l’unico riferimento alla felicità che si intuisce, ma solo come aspirazione di tutti, destino di nessuno. La stessa sorella di Felix, Venetia, richiama già nel nome il labirinto dei canali della città più bella, ma anche più complicata del Mondo. I nomi non sono causali, sono parte della trama, sono dettagli della vicenda umana, finanche quello della tenuta, Saltburn, che sta per “bruciore di sale” e si sa, il sale brucia sulle ferite aperte. E, in questo film, tutti hanno ferite aperte. Come evidenzia una delle più belle “fotografie” mai viste in un film. Da questo punto di vista, “Saltburn” è un capolavoro vero, una delizia per gli occhi, la traduzione visionaria del rincorrersi delle nostre emozioni. Evocando Fellini, ma anche il Fassbinder di “Querelle”, il Buñuel del “Fascino discreto” e l’Almodovar dei particolari esasperati; attingendo al nostro sedimento culturale, tra il chiaroscuro di Caravaggio e la prepotenza di Goya, la regista racconta molto più con le immagini che con le parole, riempiendo la nostra memoria cinegila di indimenticabili visioni. Non c’è immagine del film che non sia cristallizzabile quale opera a sé stante. Valga su tutto l’erotismo straordinaria scolpito dal primo piano esasperato dei profili in chiaroscuro, ma anche la schiena di Oliver che respira davanti allo specchio, per arrivare alle perle di sudore sui corpi desiderabili e desiderati, fino alla scena cult dello stesso Oliver che beve il sapore del corpo di Feliz, cercandolo nell’acqua che ne ha accolto il bagno e il piacere autoerotico.
Non spoilererò il finale (e mi dispiace, perché anche visivamente è arte pura), perché è il momento rilevatore e straordinario della meno prevedibile delle conclusioni , quella nella quale intuisci che, sovvertendo i miti e le speranze, mortificando i sogni e le aspirazioni, nel nostro infinito labirinto, questa volta ha vinto il Minotauro.
IL CRITICONE