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casettenataleIl Presepe, non l’albero, è il segno distintivo del Natale. Il presepe è la rievocazione artistica del più grande avvenimento della storia: la nascita di Gesù, il Salvatore del mondo, “Dio che si è fatto uomo ed è venuto ad abitare fra noi”. Ed è una rappresentazione simbolica che ripropone visivamente importanti valori morali dell’umanesimo cristiano: la sacralità della vita umana nascente, della maternità della donna e della famiglia; la pari dignità di figli di Dio delle persone umili, i pastori, chiamati per primi ad incontrare Gesù bambino e a ricevere il suo annuncio di salvezza; la generosità nell’aiutare chi è nel bisogno; la dignità del lavoro manuale, rappresentato nel presepe dall'attività dei pastori, dei contadini, degli artigiani, dei pescatori, dei venditori; la pace e la pacifica convivenza fra popoli diversi nell’annuncio degli angeli “Pace in terra agli uomini di buona volontà”; l’accettazione dei doni portati dai rappresentanti di altri popoli e culture come i Magi venuti dall’Oriente; il rispetto e l’amore per la natura creata da Dio che nasce sotto il cielo stellato, la campagna, le montagne, i corsi d’acqua raffigurati nel presepe e per gli animali, chiamati anche loro a popolare la scena della Natività, per riscaldare con il fiato il Bambinello e fargli compagnia.
Era l’anno 1223 e mancavano quindici giorni al Natale: san Francesco – che due settimane prima aveva avuto la gioia di veder approvata da papa Onorio III la Regola dei suoi frati – esprime questo desiderio a un certo Giovanni, «un uomo molto caro» al santo. E la notte di Natale Greccio diventa la nuova Betlemme, con la scena della nascita di Cristo resa viva e palpitante.
In quella scena si onora la semplicità, si esalta la povertà, si loda l’umiltà. Sono queste le tre stelle simboliche che brillano nella notte del Natale di Gesù ed è proprio questa costellazione a far comprendere quanto il presepio travalichi la stessa fede cristiana e diventi un segno universale per tutti gli uomini e le donne dal cuore e dalla vita semplice, povera e umile.
Anzi, quel quadretto, modellato un po’ liberamente sul racconto dell’evangelista Luca (2,1˗20), da allora si è trasformato in un caposaldo della storia dell’arte e, quindi, cancellarlo dalla conoscenza delle giovani generazioni attuali vorrebbe dire rendere incomprensibile una serie sterminata di opere d’arte distribuite nei secoli.
Perdere il presepio, perciò, vuol dire non solo cancellare un emblema spirituale nel quale si possono ritrovare le famiglie misere dei barconi che approdano alle nostre coste con madri che stringono al seno bambini denutriti e sfiniti, ma è anche strappare un numero enorme di pagine della nostra storia culturale più alta.
Nel presepio, dunque, s’incontrano componenti squisitamente cristiane, come l’incarnazione del Figlio di Dio (“Il Verbo divenne carne”, scriverà san Giovanni), assumendo un volto, una storia, una patria terrena, o temi come la maternità divina di Maria e il compimento dell’attesa messianica. Essi, però, s’intrecciano con soggetti universali, come la vita, la maternità, l’infanzia, la sofferenza, la povertà, l’oppressione, la persecuzione. L’altezza teologica, spirituale, umana di questi temi è espressa con grande sobrietà e intensità nel racconto evangelico, ma è stata anche resa più calda e colorita attraverso la tradizione popolare e persino il folclore.
Pensiamo solo alla pittoresca sequenza dei presepi napoletani che dal Settecento cercano di attualizzare il Natale di Gesù con l’introduzione di elementi delle vicende contemporanee, cadendo talora nel cattivo gusto, ma dimostrando sempre l’importanza di quel segno religioso per la vita quotidiana delle persone semplici. Dopo tutto, come è noto, l’entrata in scena – già con san Francesco – dell’asino e del bue è apocrifa e non evangelica, perché nasce dall’applicazione molto libera all’evento di Betlemme di un passo del profeta Isaia il quale bollava così l’indifferenza del popolo ebraico nei confronti del suo Dio: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende” (1,3).
Peraltro, la nascita di Gesù avvenne in circostanze drammatiche: Dio volle farsi uomo nascendo come un povero figlio di immigrati senza casa, costretti prima a cercare alloggio in una stalla, “perché non c’era posto per loro nell’albergo”, e poi a rifugiarsi da clandestini in Egitto per sottrarsi ad una persecuzione assassina. L’albergo in cui “non c’era posto” per una madre in procinto di partorire “e nessuno le cedette il suo” è il simbolo del nostro egoismo, mentre la “mangiatoia” in cui Maria “depose” il Bambino appena nato è un invito a immedesimarci nelle gravi difficoltà in cui versano tante persone povere. Aldilà del suo significato religioso, il presepe ha anche il valore “laico”. Quella del presepe è una tradizione natalizia genuinamente italiana e non consumistica, profondamente radicata nella cultura popolare del nostro Paese. E’ proprio il caso di dire “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende” (1,3).

Leo Nodari

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