Il 27 gennaio si celebra in Italia la Giornata della Memoria, per ricordare lo sterminio del popolo ebraico – la Shoah -, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte. Nonché coloro che anche in campi e schieramenti diversi si sono opposti al progetto di sterminio e, a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Una giornata per ricordare a tutti che un Paese non ha futuro senza memoria. Non c’è futuro senza il respiro dei giovani, senza il nostro consapevole passaggio di testimone a loro del mondo che è stato, nei suoi splendori e nelle sue tragedie. Anzi, come dice il Talmud: "Una città in cui non ci sono bambini che vanno a scuola sarà distrutta" (Talmud - Shabbath 119b). Forse pochi ci pensano, ma i pogrom, le violenze etniche, le violenze razziste vedono sempre per primi bruciare falò di libri e chiudere le scuole. Non è forse un caso che l’antisemitismo abbia colpito uno dei popoli che nella storia ha sempre avuto grande attenzione all’educazione, alla costruzione e al mantenimento di scuole. Un popolo che ha dato molto alla nostra civiltà per quanto riguarda le scienze, la letteratura, la filosofia, la poetica, l’arte. Un popolo del libro che è stato anche un popolo dell’alfabeto. Ad Auschwitz è stata trovata una pietra anonima, dove con un chiodo uno sconosciuto ha lasciato scritto "Chi mai saprà quello che mi è capitato qui?". Penso a quell’uomo o donna che l’ha scritto, penso che di lui o lei non sappiamo nulla, non il colore degli occhi, il carattere, la famiglia. Sappiamo solo del suo lacerante dolore di credere di aver sofferto senza poterlo raccontare a nessuno. Questa è la grande tragedia della Shoah: il rischio dell’amnesia, la banalizzazione della violenza, i grandi numeri (ricordo: 5 milioni e ottocento mila cittadini ebrei assassinati nei lager) così astratti e assurdi da diventare inenarrabili. Il tempo può rendere il tutto opaco, sfilacciare la riflessione. Questa pietra, invece, silenziosa, ma assordante nella tragedia peggiore -quella di essere dimenticati- ci spinge a ricordare, a fare di questo “Giorno della Memoria” un momento alto di parola. La Shoah è lo sterminio di milioni di persone colpevoli di essere ebrei, omosessuali, testimoni di Geova, zingari, disabili, deportati civili. Ci porta ad un ricordo di ciò che è perfino indicibile nella sua enormità, ma che (come insegna Annah Arendt) rischia nella sua banalità del male di essere altre volte ripetuto per nuovi odi razziali, o di essere revisionata come si dice oggi, e perfino giustificato. All’ingresso del lager di Mauthausen c’è una targa che elenca, nazione per nazione, le vittime lì assassinate. I numeri impressionano (ci sono anche decine di migliaia di italiani). I grandi numeri della targa estraniano la percezione della realtà. Nella dolce vallata danubiana il posto pare surreale. Qualche ragazzo lo potrebbe scambiare per il set di un film dell’orrore. Ma poi, quando si arriva ai forni crematori tutto ci crolla addosso. Nelle migliaia di fotografie appiccicate dai parenti, e nelle dediche, la vita ci viene addosso con tutto il suo precitato di dolore vissuto veramente, corpo per corpo, anima per anima, storia per storia. E’ un dolore così grande da diventare inspiegabile. Questo è un altro aspetto della memoria che non dobbiamo perdere sulla Shoah: il ricordo individuale di ognuno dei deportati, la vita spezzata, gli affetti lacerati, il lutto. Perfino il senso di colpa di chi si è salvato, così bene descritto da Primo Levi. Sappiamo che, per molti ex deportati, era difficile il racconto di ciò che era stato per la colpa di essersi salvati, l'ultimo cinico lascito della violenza psicologica del nazismo. Anche nei gulag staliniani è successa la medesima cosa, con l’aggiunta per molti di sentirsi colpevoli due volte: come traditori del comunismo e come salvati dalla morte. No, dobbiamo evitare di credere che la Shoah sia uno scherzo della storia, o peggio considerarla storicamente più un fatto psichiatrico che un evento politico e culturale. Non è così. Verrebbe da dire, purtroppo. L’antisemitismo, come tutte le forme razziste e totalitarie, ha permeato la civiltà occidentale e a periodi riemerge in forme sempre diverse, ma comuni negli istinti e negli effetti. Possiamo correre il rischio di crederlo un fatto endemico, quasi normale. Anzi, è spesso dalle barzellette e dalle ironie che si inizia. L’antisemitismo è una ferita storica della cultura europea e mondiale, della sub-cultura che fonda nella razza, nel mito del "sangue e terra", dell’ "heimat", la sub-ragione di una violenza senza limiti, del disprezzo indicibile, ci fa vergogna di chiamarsi umani. Ma è della nostra civiltà lo scontro continuo tra violenza e pace, l’incontro e lo scontro continuo tra popoli e differenze. La nostra civiltà è sempre ad un bivio. La convivenza e la tolleranza sono da conquistare ogni giorno. La Shoah è un evento che ha ridotto al rango di non persone, e al destino di fumo che usciva dai camini, milioni di cittadini ebrei con il solo delitto di essere tali. ’antisemitismo non nasce con il nazismo e il fascismo, viene da lontano. E, come tutti i teoremi delle razze e delle purezze delle razze, è sempre dietro l’angolo. Occorre ricordarlo a voi che lasciate morire in mare gente disperata che fugge dalla fame. Occorre ricordarlo a voi che lasciate che muoiano in mare donne incinte, bambini piccoli e disperati che diventano cibo per i tonni. Occorre ricordarlo a voi, assassini come i khmer rossi cambogiani, come i cecchini croati, come i tagliateste Hutu e Tutsi ruandesi. Voi che avete dimenticato la storia.
Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo che lavora nel fango
che non conosce pace che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato: vi comando queste parole.
Leo Nodari