Senatore Salvini, mi scusi se oggi non verrò a baciarle la mano. Non indosso lo zuccotto paonazzo e non conto nulla del mio ginocchio prono non saprebbe che farsene. E comunque nella mia vita mi sono inginocchiato solo davanti a Cristo. Io. Onestamente voglio dirle che non mi interessa se lei fa parte di un partito che ha sottratto 50 milioni di euro agli italiani (mentre lei era parlamentare e il suo assistente era Franco Bossi fratello di Umberto). Non mi interessa se era comunista e frequentava il Leoncavallo. Non mi interessa se con la divisa da poliziotto va ad abbracciare pregiudicati durante le partite di calcio. Non mi interessa se Lei, come il suo maestro, scrive al Corsera che non si farà processare. All’onestà dei 5S e alla giustizia uguale per tutti non ci crede nessuno. Non mi interessa se dice di essere cattolico ma ignora il messaggio di Cristo. Non mi interessa se parla di istituzioni ma ignora le parole del Presidente della Repubblica. E non mi interessa nemmeno lontanamente la sua brillante idea di usare l’esercito contro i sindaci, perché, se solo ci provasse a farlo, avrebbe una risposta democratica talmente adeguata che se la ricorderebbe per tutta la vita. Certo vorrei dirle,ma non qui, che sono indignato da un Ministro dell’Interno, che dovrebbe garantire la sicurezza di tutti gli italiani e invece semina terrore. Non le scrivo perché il nostro è l’unico Paese europeo è in recessione. Non le scrivo per la Tav, e non le chiedo sui condoni. Tutto questo appartiene al passato, alla storia. I cittadini, in politica unici giudici, l’hanno assolta. Dunque le auguro una buona colazione nella bella città di Campli, tra bella gente, lavoratori, ben amministrata da Pietro Quaresimale vostro prossimo consigliere regionale. Le auguro un buon panino con la porchetta nonostante l’orario. E in questa pausa però le invito a riflettere, seriamente, sulla condizione del Paese. Del nostro Paese. Con diverse responsabilità, mio e suo.
In atto c’è una grande battaglia culturale, civile, spirituale politica, che Papa Francesco sta conducendo ormai da tempo: è lo scontro decisivo contro l’ideologia della paura. Il punto di caduta principale – ma non l’unico – di questa contesa si gioca intorno alla questione dei diversi. Il “diverso”, l’estraneo, il portatore di, modi di vivere, usanze e culture, ma anche – e in molti casi soprattutto – il povero, il giovane disoccupato, quello che cerca lavoro, che distrae, si comporta in modo strano, ruba spazio, risorse e occupazione ai normali.
Ancora una volta, domenica scorsa a San Pietro, Francesco ha toccato questo tema così centrale e lo ha fatto distinguendo accuratamente i piani: da una parte comprendendo i timori di chi è in difficoltà, di chi fa fatica, di chi ha minori energie, capacità, risorse, mettendo allo stesso tempo all’indice la paura che vuole condizionare le scelte politiche e civili.
“…Non è facile – ha affermato in tal senso Francesco – mettersi nei panni delle persone diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze. E così spesso rinunciamo all’incontro con l’altro e alziamo barriere per difenderci”.
Tutte queste paure, ha rilevato Francesco, “sono legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano. Avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, con il diverso, con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro”.
Vorrei rubarle solo due minuti per invitarla a riflettere sulla foto scattata dal Papa: una fotografia delle condizioni in cui si vive oggi in molte regioni d’Europa, comprese l’Italia. La difficoltà dell’incontro, la paura – tanto più forte in una stagione di crisi sociale così profonda – è motivata, ma non può e non deve condizionare le scelte pubbliche e civili, la politica, il rischio infatti è quello di costruire società fondate sull’odio e sul rifiuto.
Di certo, l’ultimo decennio di crisi economica iniziata nel 2008, che ha colpito duramente il vecchio continente, e poi l’allargarsi di conflitti dal Medio Oriente all’Africa sub-sahariana, i cambiamenti climatici, hanno generato una miscela esplosiva che ha dato munizioni preziose al pensiero reazionario e ai fautori dello scontro di civiltà. La povertà e le guerre spaventose hanno infatti generato flussi migratori che hanno spaventato società del nord del mondo, colpite a loro volta gravemente dalla contrazione del lavoro e dei salari degli ultimi anni. In questo contesto la voce di papa Francesco si è levata più volte per fermare lo spettro delle chiusure, dei muri o dei fili spinati, dell’odio, e per mantenere aperta la prospettiva di una risposta positiva alla crisi contemporanea costruita sulla solidarietà, ma pure basata sulla collaborazione fra Stati, sulla cooperazione economica internazionale, e soprattutto su un modello di sviluppo che guardasse al lavoro, alle nuove imprese ‘green’, alla rinuncia a un modello predatorio a livello finanziario o ambientale.
E’ un cristianesimo che s’incarna nella storia, secondo i principi del Concilio Vaticano II, che riscopre la sua universalità legata alla pari dignità di ogni essere umano, alla riscoperta di una fede in movimento.
Alcuni leader, seguiti da una galassia di gruppi neofascisti e fondamentalisti hanno puntato le loro carte su una Chiesa identitaria chiusa, su una croce simbolo nostalgico della battaglia di Lepanto, strumento ideologico da brandire come un’arma a difesa della razza bianca. Si sono trovati invece di fronte il Papa figlio di migranti che ha guardato al proprio tempo e al futuro ponendo al centro della fede le grandi questioni degli esclusi, delle periferie del mondo, delle misericordia, di un’economia riscritta in chiave umanistica e sociale, del lavoro per i giovani.
Lo scarto, e il disappunto, fra il modello del cattolicesimo ultra-nazionalista e lo sguardo rivolto a un’umanità accettata e accolta nelle sue differenze proposto dalla Cattedra di Pietro, non potevano essere più grandi.
Lei, senatore Salvini, arresti pure tutte i Sindaci che la contestano, assolva pure Bossi e faccia pure finta di non sapere di diamanti in Africa e festini milanesi, vesta pure come vuole, e non si faccia processare che tanto non cambia nulla. Se Lei è dov’è è solo perché chi doveva rappresentare le grandi tradizioni popolari del Paese si è scannato per una poltrona in più o meno.
Però una preghiera io gliela faccio: non scavi nel fango, non estragga ancora di più il mostro razzista e populista dal sottosuolo melmoso della rabbia, la smetta di mescolarlo con paura e ignoranza per metterlo su un tavolaccio e risvegliarlo. Il suo populismo, che trovato praterie in un paese senza guida, senza ideali, senza riferimenti è pericoloso. Se ama un po’, almeno un po’ il nostro Paese ci rifletta. L’Italia deve fare già i conti con questa creatura che se ne va in giro sulle sue gambe, e gli episodi di ogni giorno ci parlano di lui. La prego la smetta. Il suo è un gioco troppo pericoloso per il Paese. La prego: restiamo umani.
Leo Nodari