Portava dei baffetti sale e pepe. Come i suoi modi e come il suo eloquio, immerso in un accento siciliano d’altri tempi. Divenne nome noto sui giornali nei primi anni ottanta, quelli che riscrissero la storia di Palermo. Si mormorava in continente che l’unica vera soluzione per combattere la mafia fosse di mandare in Sicilia magistrati non siciliani. Troppe contiguità e compiacenze culturali, troppi intrecci biografici e di salotti, si diceva, perciò le assoluzioni per insufficienze di prove. Come se i processi spostati a Bari o a Catanzaro anni avessero dato risultati diversi. C’era senz’altro un tanfo di complicità, nei palazzi di giustizia siciliani. Ma stava anche arrivando dal ventre storico dell’isola, dai quartieri popolari di Palermo, una nuova generazione di giudici che avrebbe costretto tutti, ma proprio tutti, mica solo i giudici, a schierarsi. O di qua o di là. Paolo Borsellino era uno di questi. Timido, vocato al diritto civile, senza alcuna intenzione di occuparsi di mafia, ma destinato a diventare simbolo della lotta alla mafia.
Sempre di più il suo nome veniva associato a quello di un suo amico, anche lui siciliano e cresciuto alla Kalsa: Giovanni Falcone. Con lui entrò definitivamente nel fortino della rivoluzione morale palermitana andando a far parte del pool antimafia organizzato da un collega più anziano, arrivato da
Firenze come volontario per sostituire Rocco Chinnici, il primo giudice ucciso con un’autobomba. Si chiamava Antonino Caponnetto, questo volontario, e sarebbe diventato per lui una specie di padre putativo.
Nell’85, pur senza averlo mai conosciuto, scoprii di provare gratitudine per il piccolo giudice gentile. Fu quando seppi che, per dare giustizia nel maxiprocesso che squarciò le connivenze, se ne era dovuto andare sull’isola dell’Asinara insieme a Falcone per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio di più di 460 imputati. Restai di stucco. Loro due costretti a vivere come latitanti mentre i latitanti veri vivevano tranquillamente e facevano figli nel centro di Palermo.
Si era un pò avverato, in fondo, l’auspicio di una lettera pubblicata dal “Giornale di Sicilia” dopo la strage in cui era stato ucciso Chinnici: ma perché, chiedeva il lettore, questi giudici invece di fare correre a noi i
rischi di quel che fanno non se ne vanno tutti a stare su un’isola, dove peraltro li si può difendere anche meglio? All’Asinara i due amici (ai quali lo Stato presentò pure il conto delle spese per quella vacanza di relax e divertimento…) stesero un’ordinanza capolavoro, punto di partenza per la storica condanna di Cosa Nostra. Divennero così invisi in coppia ai propri colleghi e al foro palermitano.
Dove una volta si diceva che Borsellino fosse solo la spalla di Falcone, e un’altra si spiegava confidenzialmente che senza i consigli e la mente di Borsellino, Falcone non fosse nessuno. Dipendeva solo da chi si voleva colpire.
In pieno maxiprocesso, ecco il celebre articolo di Leonardo Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Era accaduto che Borsellino avesse vinto il concorso al posto di procuratore capo di Marsala. Che un suo collega più anziano, che contava sul potere dell’anagrafe per vincere l’ambito posto, si fosse scandalizzato e risentito con il Csm dell’epoca.
Il quale, per assegnare quella funzione, aveva tenuto conto della specificità delle competenze antimafia necessarie per operare bene in terra di mafia. Il collega aveva portato le carte a Sciascia per vendetta e lo scrittore aveva vergato un’intera pagina di condanna per l’infausto, nuovo principio. Che potesse essere nata una professionalità antimafiosa nei ranghi della magistratura e della pubblica amministrazione preoccupava molto il suo spirito garantista. Perciò concluse l’articolo anti-Borsellino con questa profezia: “I
lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Ne nacque una polemica in cui, in nome dell’anticonformismo, si schierarono con Sciascia tutti i partiti, tutti i sindacati e quasi tutti i giornali. “Contro i poteri forti”, naturalmente.
Colpivano la sua affabilità, la sua umiltà di modi. Aveva una conoscenza immensa in materia di mafia ma non la esibiva, si adattava a discutere o a rovesciare con la forza del buon senso tutti i luoghi comuni che il giornalismo di allora, e in particolare quello straniero, aveva sposato sull’argomento. Aveva la pazienza di hivuol convincere senza umiliare l’ignoranza altrui. Schivo e riservato, svolse il suo impegno a Marsala non dimenticando mai l’amico Giovanni. E perciò intervenne pubblicamente a sua difesa quando vide vincere nel Csm il partito anti-Falcone, la giuliva ammucchiata di conservatori e di democratici che al giudice simbolo dell’antimafia preferì, per il ruolo di capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, un signore sconosciuto che aveva il merito schiacciante di vent’anni di anzianità in più. L’articolo di Sciascia era dunque servito. Contro il pubblico allarme di Borsellino sulla “normalizzazione” in corso venne invocata la sanzione del Csm.
Ci fu la lotta contro i clan mafiosi di Marsala e di quella zona infida e poco conosciuta della provincia trapanese. Ci fu la vicenda di Rita Atria, la ragazza di famiglia mafiosa che si affidò a lui come a un padre per sapere per la prima volta, pur se sotto protezione, che cosa fosse la vita senza mafia, e che si sarebbe suicidata dopo la sua morte. Ci furono gli assalti infiniti alla magistratura non connivente e non cretina. Fino alla torsione terribile del’92, quando tutto cambiò. Fino a Capaci, le toghe palermitane che si sovrappongono nel lutto annichilito, e il suo sguardo smarrito e dolorante che se ne porta una addosso, la più indimenticabile, non ci sarà più alcun confabulare complice e divertito con l’amico come nella foto che sta in decine di migliaia di luoghi in tutta Italia. E, solo due giorni prima, l’intervista assurda sugli imprenditori del nord, sulla mafia a Milano, su Mangano e Dell’Utri, con quel giornalista francese sotto falso nome che lo interroga e lo incalza quasi volesse carpirgli che cosa sa davvero di certe cose.
L’unica volta che l’ho visto e ascoltato fu il 25 giugno del 1992. Nel cortile della Casa Professa. Diceva che non bisognava parlare di uomini soli. E certo quella sera, alla biblioteca comunale di Palermo, nel cortile della Casa Professa strapieno di cittadini antimafiosi, Paolo Borsellino non era solo. Lo accolsero con un applauso scrosciante quando arrivò. A mezza sera, in ritardo, perché, preso com’era dalle sue indagini, si era dimenticato dell’appuntamento. Aveva su di sé il fiato e il cuore di un popolo. Eppure il suo eloquio era quello di un uomo solo, in corsa contro il tempo. Si sedette al tavolo dei relatori, nel convegno organizzato dalla “Rete” per il trigesimo della strage. Lo guardavo alla mia sinistra mentre aspirava una sigaretta dietro l’altra, costretto a scrutarlo dietro le volute di fumo che gli si alzavano dalle dita. Tenne un discorso che fu un testamento morale da mettere i brividi. L’accento siciliano fuori tempo entrava nel microfono liberando frasi che erano sciabolate. La calma di certi passaggi era quella concessa a chi sa che è già arrivato l’esplosivo per ucciderlo. Disse che Giovanni aveva incominciato a morire con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia. Chiamò “Giuda”, con disprezzo biblico, il magistrato che aveva tramato nel Csm contro l’amico ucciso e tutti videro comporsi nell’aria il nome di un giudice palermitano nel frattempo andato in Cassazione. Disse che bisognava fare in fretta, che non c’era molto tempo. Poi si scusò con tutti e spiegò che doveva tornare a casa a lavorare. A quel punto successe un fatto straordinario. Una di quelle cose che non dimentichi più tutta la vita. Le mille e più persone assiepate intorno e in ogni dove si alzarono in piedi tutte insieme. Per applaudirlo forte, sempre più forte. Per dodici minuti di fila. Avevano capito quel che lui aveva capito. Che avrebbero ucciso anche il giudice gentile. E vollero far sentire almeno a lui, da vivo, l’applauso che Giovanni Falcone non aveva potuto sentire. Aveva con sé il suo popolo, eppure era solo. Sarebbe andato a lavorare solo, solo con le sue memorie, le sue consapevolezze, le sue carte. Lui, la notte, e la storia più vigliacca d’Italia. Dimostrò la sua grandezza all’alba dell’ultimo mattino della sua vita. Per rispondere a una professoressa di Padova con gentilezza e pazienza, come sempre. “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti , e soprattutto i giovani, a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.” … Me lo immagino chino su quella carta, anchesu quella carta, i baffetti gentili, qualche ora prima dell’esplosione infernale, perché anche l’antimafia può farti male, anche l’antimafia può costringere a discolparsi chi sta andando a morire. Più ci penso e più mi convinco che quella lettera all’alba sia stato il segno più vero della sua grandezza.
Leo Nodari