Nell’Abruzzo della discarica più grande d’Europa che ha avvelenato una zona meravigliosa della nostra terra, che ha seminato tumori e alterazioni genetiche, c’è chi non vuol vedere, c’è chi non vuol sapere, c’è chi non ha mai parlato e non si sogna di parlare. Dietro c’è la camorra dei casalesi, di sandokan, i camorristi più spietati, quelli che sparano. E c’è tanta indifferenza complice. Tanti sapevano e non hanno denunciato. Tanti vedevano anche 50 camion al giorno che passavano per scaricare materiale puzzolente. La puzza si sente ancora oggi, già dallo svincolo dell’autostrada A25. Pescara è a due passi. Dovunque immondizia, sporco, e tanti cumuli di immondizia tossica al di là della sterpaglia. Le campagne avvelenate si stendono attorno. I pilastri dei cavalcavia sono corrosi dalle esalazioni tossiche. I vecchi casali di campagna che producevano buonissimo olio, vino, grano grondano intonaci scrostati. All’ombra dei pochi alberi l’aria entra nei polmoni nauseabonda e graffiante. Benvenuti in Abruzzo, al confine tra pendici del Gran Sasso, il parco del Sirente e Caramanico. Benvenuti all’inferno di Bussi sul Tirino. Nel cuore dell’Abruzzo, uno dei disastri ambientali più gravi d’Italia. Per decenni le sue acque sono state contaminate dal colosso della chimica Montedison. Inserito nel 2008 come sito di interesse nazionale (Sin), gli abitanti del paese alle porte del Gran Sasso stanno ancora aspettando la bonifica dell’area inquinata. Una storia fatta di colpevoli ritardi burocratici e di una interminabile battaglia legale. Sullo sfondo, la salute dei cittadini, allarmati dall’aumento di tumori e malattie.
Difficile crederlo guardandosi attorno, il Gran Sasso a destra, la Maiella a sinistra. Cumuli di cenere ancora denunciano i roghi con i quali si sono fatti sparire i rifiuti tossici e gli scarti del lavoro in nero. Plastica e copertoni come combustibile per i veleni che venivano sparsi nell’aria. Ma quello che si vede in superficie è niente rispetto alle tonnellate di veleno che sono state seppellite qui sotto. Veleni che hanno inquinando le falde acquifere, i terreni, l’aria.
Don Patriciello alza i finestrini della macchina e chiude i bocchettoni dell’aria. Qua attorno c’è anche l’amianto, buttato alla meno peggio, spezzato. E dice “Bisognerebbe equiparare i reati ambientali ai reati di mafia, evitare le prescrizioni, costringere i responsabili a pagare, fare in modo che le molto remunerate bonifiche non siano fatte dagli stessi che hanno inquinato per anni”. Da un lato della strada ci sono i campi di asparagi, dall’altro cumuli di veleno.
Don Maurizio Patriciello, parroco di San Paolo apostolo, che combatte il degrado stando vicino alla sua gente nella “terra dei fuochi”, respirando con loro lo stesso pericolo di morte, conosce bene queste realtà. Fatte di colpe, di incuria, ma anche complicità e concussioni. Fatte di camorra ma anche di gente che per anni ha saputo ma non ha visto, non ha parlato, non ha parlato. Don Maurizio Patriciello accendendo i riflettori sulle tante “terre dei fuochi”, in Campania in Abruzzo e ora anche in Veneto e Lombardia, accendendo i riflettori su queste nostre terre violentate di cui ormai tutti hanno paura, prova a salvare il salvabile, a tutelare ciò che resta. Per anni non abbiamo immaginato cosa covava nelle viscere di questa terra, quali veleni le industrie, soprattutto del Nord, hanno sversato da queste parti. I fanghi della Montedison, di Porto Marghera, quelli dell’Acna (coloranti), gli scarti industriali di molte fabbriche. Complici la camorra, gli “industriali criminali”, i politici corrotti, con la complicità dei cittadini zitti e muti, le campagne rese fertili dal fiume Pescara sono diventate fabbriche di morte.
La frangia tagliata lunga e le lenti nascondono solo in parte l’emozione degli occhi quando incontra gli studenti abruzzesi e delle scuole che lo invitano in tutta Italia. Sono tante, ma non tantissime. Molti dirigenti scolastici sono complici del silenzio.
Nella sua terra, che quasi per ironia della sorte si chiama Parco verde, lo rispettano tutti, soprattutto per questo suo impegno a denunciare i mali che avvelenano anche i figli della camorra. Ma non è un prete ambientalista. Don Primo Mazzolari, amava dire che bisogna aiutare l’uomo a essere più uomo. E lui cerca di agire da uomo prima ancora che da cristiano. Perché l’impegno per l’ambiente – che significa impegno per la salute, per l’agricoltura, per lo sviluppo – deve essere di tutti. Per la nostra generazione ormai è tardi, ma noi non possiamo smettere di sperare che questa terra possa tornare a essere fertile e sana. Nella “terra dei fuochi” campana il 4 maggio prossimo andrà Papa Francesco, a riconoscimento del grande lavoro fatto da Padre Maurizio per la sua gente. E sarà un momento di grande festa, consacrato dalla presenza del Santo Padre. Un momento di gioia. Un momento di speranza. Per loro e per noi.
Leo Nodari