Il potere dichiara che il giovane arrestato, di nome Gesù, figlio di Giuseppe, è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea , e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio. Il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato. Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato. Del fratello Stefano parlerà giovedi 5 marzo Ilaria Cucchi, alle ore 11 all’Istituto “Moretti”, e alle ore 16 all’Università di Teramo. Dopo anni e anni di battaglia giudiziaria condotta con tanto coraggio e tanto amore, Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo hanno obbligato il Tribunale di Roma ha dire che fu omicidio. Omicidio. Stefano fuucciso. Da uomini che disonorando la divisa si sono accaniti su un corpo martoriato, con calci e pugni, fino ad ucciderlo. Per farlo è stato necessario tanto coraggio e tanto amore. E’ stato necessario sopportare menzogne, depistaggi, offese, illazioni, anni e anni di processi che ogni volta riaprivano una ferita mai chiusa. Per farlo è stato necessario tanto coraggio e tanto amore. Lo sapevamo, da tempo. L’ho scritto decine di volte. Tanti si sono mobilitati. E’ stato necessario un film. E’ stato utile Fazio, Vespa, e persino Mara Venier. Ma a questa sentenza dello Stato contro una parte dello Stato non si sarebbe mai arrivati se non ci fosse stato da parte di Ilaria e Fabio tanto coraggio e tanto amore. Per tutti questi anni lunghi 10 anni la famiglia, Rita, Giovanni, Ilaria e Fabio Anselmo, hanno cercato instancabilmente di dimostrare che a determinarne il decesso fosse stato il pestaggio, feroce, che aveva subito. Oggi c’è una sentenza. Lo Stato ha scritto che in Italia la legalità costituzionale, che comprende in sé il diritto all’inviolabilità della integrità psico-fisica , e dunque il diritto a non essere maltrattati e torturati, non si ferma sulla soglia di una caserma dei carabinieri. Dobbiamo dire tutti grazie al coraggio e all’amore . Le istituzioni italiane debbono molto a Ilaria Cucchi e ai suoi genitori. Senza la loro caparbietà, senza il loro infinito dolore, senza la fatica di un’instancabile Ilaria, capace di fare da muro contro calunniatori e miserabili anonimi aggressori, e senza la strategia, di certo “non difensiva” Stefano Cucchi sarebbe stato uno dei tanti senza nome e dei tanti senza storia che sono morti nelle mani dello Stato. Lui invece ha un nome, ha un volto, ha un’anima, ha una storia ed ha avuto una parziale giustizia grazie a Ilaria e a chi, con lei, ha lottato stoicamente per la giustizia e la verità.
La verità completa è ancora tutta da accertare. Mail Generale comandante dell’Arma, Giovanni Nistri, ha scritto che “il dolore di Stefano è il nostro dolore”. Non era facile. Ma lo ha scritto. Ed ha ragione. Il dolore di Stefano, il dolore di Ilaria è il dolore di tutti noi. Deve essere il dolore di chi rappresenta le istituzioni, le quali non devono mai sottrarsi alla giustizia. La divisa non dà diritto all’immunità penale. È lo Stato democratico che viene ferito quando la legalità si ferma su un portone . E’ lo Stato – se c’è – che deve intervenire se dei servizi deviati fanno saltare in aria la macchina di un magistrato e della scorta. E’ lo Stato, quello vero, che deve intervenire per affermare la verità se dei traditori di stato depistano, mentono.Tutto, per non dire che c’erano quattro balordi “in casa”. O per non dire che dei politici che temevano per se cercavano un accordo con la mafia. Se di Borsellino , e tanti altri, sappiamo come è andata, lo dobbiamo ai magistrati che non si sono arresi davanti alle verità ai falsi pentiti. Manca solo l’agenza rossa. Per Stefano Cucchi conosciamo nomi e cognomi e lo dobbiamo ad una ragazza. Al suo coraggio ed al suo amore. Non dimentichiamolo. E diciamo grazie.
Leo Nodari