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Non ci sono cétégorie

TeramonowL’inimmaginabile è accaduto. Nessuno per strada. Città deserte. Come in una bolla. Dentro un’aria rarefatta. In una sorta di attesa. L’inimmaginabile è accaduto. Un paese è stato chiuso, vincolato negli spostamenti. Le attività improvvisamente cancellate. La vita quotidiana stravolta. Tutti a casa. Bar, ristoranti, chiese, parchi, cinema e teatri chiusi. Siamo in un territorio ignoto che non sappiamo dove ci porterà. I miracoli hanno cambiato location, dalle chiese agli ospedali. Noi, il popolo, sappiamo di esser dentro il ciclone fino al collo. Lo sappiamo perché abbiamo paura per i nostri figli. Perché in silenzio tremiamo ad ogni starnuto. Perché capiamo che tra i nostri amici c’è chi rischia di perdere tutto. Le nostre vite sono state travolte, le nostre abitudini, i piccoli rituali. Tutto spazzato via. Sino alla data in cui torneremo a essere noi. Perché ora, così bloccati in casa, facciamo fatica a riconoscerci. Perché, in fondo, la nostra vita passava attraverso quel mare di gesti, di cose, di contatti, di parole, di azioni che ora non ci sono permessi.  Mai avrei pensato di dirlo. Mi manca il traffico, il vaffanculo in moto, l’imprecazione contro il cinese in fila, il giro di telefonate, gli impegni del mattino, lo spettacolo da vedere, la lezione all’università, l’incontro a scuola, il caffè delle 10, la pizza con il chinotto, le prove da far iniziare,  la cassiera del supermercato, il numeretto della fila, la festa di compleanno con i selfie e qualcuna da rimediare per la serata. La normalità. Mi manca la normalità. Perché in quelle ore, apparentemente perse, c’era comunque tanta vita altrui che entrava nella mia. In quelle ore c’era la mia libertà. Come direbbe Nanni Moretti “Potevo fare, andare, vedere gente”. Quanta meravigliosa normalità non sono riuscito ad amare. Quella era la felicità. La mia. La nostra. La felice condizione di chi vive da padrone la sua vita, e le sue azioni, da uomo libero in un Paese che, malgrado tutto, permette a ogni individuo di vivere inseguendo le proprie aspirazioni. La guardo ora la mia vita, proprio ora che tutto è messo in discussione, e mi ricordo di quanta bellezza abbiamo a disposizione, di quanta fortuna abbiamo avuto nel nascere qui, ora, in una terra di pace e di libertà. Quando tutto sarà finito, quando questo maledetto virus sarà affidato alla memoria, mi ricorderò di questi momenti. E se proprio dovrò amareggiarmi per qualcosa, con qualcuno, potrò farlo con tutti quelli che negano a intere regioni del mondo di vivere in pace, dove l’unica normalità è quella ignobile della guerra, o della malattia. Dove niente è veramente normale, niente veramente felice.  Ora, tutti, insieme, abbiamo dovuto fare i conti con un riordino delle priorità. Tra un mese molti dovranno farli con le conseguenze economiche e sociali, che saranno più pesanti di quelle sanitarie. Dobbiamo prepararci ad affrontare una situazione nuova di un momento straordinario per evitare che l’epidemia virale si trasformi in macelleria sociale. venirne fuori. Più forti. Ma Teramo ce la può fare. È il momento delle scelte. Dell’unità. Del ragionamento. Non del panico. Anche se si sente la precarietà di tutto e  prevale l’incertezza sul futuro. Ma proprio per questo, dobbiamo coltivare la speranza di nuove soluzioni, di nuove idee, di nuovi modi di vivere. E proprio qui sta il punto. Dobbiamo fermare il contagio. Quello più grave. Quello dell’egoismo. Dobbiamo rialzarci e dobbiamo farlo tutti insieme, senza lasciare indietro nessuno. Dopo lo sforzo per curare gli ammalati e spegnere i focolai, ora occorre impostare le nuove linee del nostro futuro comune. Grazie alla responsabilità di tutti. Responsabilità è parola desueta. Che suona retorica, forse addirittura vuota. Ma mai come in questi giorni possiamo tornare a capire che siamo davvero tutti connessi. E non solo streaming. E che di conseguenza il comportamento di ciascuno può fare la differenza. Per sé e per gli altri. In fondo, è propria la personale responsabilità l’ultima e definitiva barriera che può permettere di fermare il virus. Ma anche la prima e solida condizione per ricostruire il nostro futuro. Il riscoprirsi vulnerabili è anche una occasione per riscoprire quello che rischiamo sempre di dimenticare. Siamo tutti legati gli uni agli altri. E la solidarietà non è una parola buona per ogni occasione, ma il fondamento della stessa vita sociale. Lo abbiamo potuto constatare con drammatica evidenza in questi giorni. Con catene di relazioni che dalla Cina, in poche settimane, sono arrivate fino a noi. L’idea di separarci dal resto del mondo, di inserirci in un bunker  è una fantasia paranoica. La soluzione sta piuttosto nel far crescere la responsabilità di tutti nella empatia che sorge spontanea quando vediamo un altro essere umano in difficoltà. È grazie a questa facoltà che gli uomini non abbandonano i deboli e i malati – come avviene invece per le altre specie animali – ma se ne prendono cura. Qualche volta fino al punto di correre rischi personali. E di morire con e per loro. Questa solidarietà profonda si è manifestata nelle nostre città e ha consentito di mettere in campo tutte le risorse istituzionali e organizzative ma anche tutto il senso di umanità di cui siamo portatori. Facciamone tesoro. Perché è su questa ricchezza che dovremo costruire il nostro futuro comune. L’Europa stessa è oggi di fronte a questo bivio. O prende con coraggio la strada di una maggiore integrazione, aprendo così il proprio futuro. Oppure è destinata a disgregarsi in preda agli egoismi interni. Nell’illusione, sempre risorgente nella storia, che i forti possono salvarsi a danno dei deboli. Ci convinca papa Francesco: «È tempo di reimpostare la rotta». Ci scuota il richiamo formulato, con saggezza e urgenza, dal presidente Mattarella: “ogni ritardo nel riavviare autentica coesione e fattiva solidarietà potrà esserci fatale”. E ci sia di monito l’antico proverbio africano: “Da soli si va più veloci. Insieme si va più lontano”.


Leo Nodari