Erano gli anni delle finanze spericolate e patti inconfessabili. Erano anni di contagiose speranze e ferventi ideali.Erano gli anni della violenza più cieca, ma anche della fiducia più forte. Erano anni – quelli in cui visse e morì Giorgio Ambrosoli – mai del tutto svaniti dalle fondamenta del Paese. Anche se all’apparenza ora tutto sembra diverso. A cominciare dalle strade della sua Milano. a fine giornata ci sono ancora tanti avvocati, imprenditori, professori, magistrati o scienziati, che possono sedere al tavolo di un ristorante (come Ambrosoli in quella sera dell’11 luglio di un’altra epoca) con la serenità di aver rispettato le regole. Di aver anteposto l’interesse della collettività a quello privato, la fatica della legalità alla scorciatoia del sotterfugio. E, questo, anche in contesti difficili, anche a costo di “pagare a molto caro prezzo” l’incarico, come avvenne per uno stimato professionista milanese che avrebbe potuto vivere “tranquillo con le sue serene abitudini e, invece, per la passione dell’onestà”, scrisse Corrado Stajano, si batté contro un genio del male, sorretto da forze potenti, palesi e occulte, e fu sconfitto. Lui fu fermato nella sua esistenza, ma in realtà non fu del tutto sconfitto, visto com’è andata la storia e quanto il suo esempio si rinnovi nelle vite di chi continua a opporsi agli abusi, nell’esercizio delle proprie funzioni. A dispetto della vulgata del quieto vivere, lontano da fasti e clamori. Nel silenzio faticoso del dovere quotidiano. C’è un piccolo esercito di “eroi borghesi”, sconosciuti ai più. Anche a riprova di come, a dispetto del susseguirsi di scandali annunciati e indignazioni tardive, l’Italia resti profondamente impegnata nella difesa dei diritti civili e dell’etica, pubblica e privata come quarant’anni fa, le cronache continuano a raccontare di consorterie mafiose e di blocchi di potere, a protezione degli interessi di singoli; oggi, come in quell’estate del 1979, quando veniva ucciso l’avvocato milanese (nominato dalla Banca d’Italia unico commissario liquidatore della Banca Privata Italiana), a fine giornata ci sono ancora tanti avvocati, imprenditori, professori, magistrati o scienziati, che possono sedere al tavolo di un ristorante (come Ambrosoli in quella sera dell’11 luglio di un’altra epoca) con la serenità di aver rispettato le regole. A dispetto della vulgata del quieto vivere, lontano da fasti e clamori l’Italia è fatta di singoli cittadini, che rispondono più alla propria coscienza che alle pressioni esterne. Persone, spesso sole, che fanno il loro dovere. Semplicemente il loro dovere. Come Ambrosoli fu solo tra Governo, banca centrale, Vaticano e partiti politici. Ma non cedette allo sconforto, durante l’immersione nei segreti finanziari del bancarottiere siciliano e nell’altra faccia del potere italiano. In epoche successive, altri si sarebbero scontrati con differenti blocchi di interessi, rinnovando, ciascuno nella sua dimensione, le scelte dell’avvocato milanese. In tempi di scommesse diffuse e sport macchiati, l’ex calciatore Simone Farina rifiutò una proposta per “sistemare” una partita di Coppa Italia. Denunciò e fece arrestare i latori del patto inconfessabile, ma nessuno poi gli rinnovò il contratto. C’è sempre un punto in cui i nemici non sono gli imprenditori spregiudicati o gli atleti venduti, ma l’avvocato che si appella alla legge e alla coscienza, per non far ricadere sulla collettività il dissesto della banca, o l’onesto calciatore che smaschera un sistema radicato. Fu prima celebrato, poi ostracizzato, il funzionario delle Ferrovie Nord, costretto a lasciare dopo aver documentato le spese pazze del numero uno dell’azienda
In tutte queste storie, c’è sempre da un lato la solitudine di chi agisce secondo etica e professionalità; dall’altro, lo stupore di chi si riteneva intoccabile. Uno di questi era Michele Sindona: fiscalista con il miraggio della banca, sbarcato sotto al Duomo dalla provincia di Messina, aveva costruito una galassia di scatole cinesi sulle due sponde dell’Atlantico. Osannato dai potenti, celebrato dai giornali, era convinto di essere il padrone di quella Milano che dominava dall’ufficio in vetrocemento e acciaio al quarto piano di via Arrigo Boito. Protezioni clientelari, corruzioni politiche e uno spregiudicato uso delle finanze e delle relazioni avevano cementato negli anni il potere di Sindona. Gli stessi ingredienti che rinsaldano tuttora l’arroganza criminale dei clan, davanti a cui però non tutti sono disposti a piegarsi. Così non mancano le storie di imprenditori, associazioni, dirigenti scolastici, che si sono opposti al racket, che hanno recuperato beni dei mafiosi, salvato ragazzi difficili o semplicemente provato ad affermare il rispetto delle regole. La più eversiva delle azioni, in alcuni contesti. Ed è racchiusa tutta qui la coscienza dei propri doveri, richiamata da Giorgio Ambrosoli nella lettera-testamento alla moglie, Annalori Gorla. Dovere, verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa. Ascolto in tv le parole di Umberto Ambrosoli e mi chiedo quanto coraggio sia richiesto per riuscire a considerare un successo quell’impegno, finito con il sangue su un marciapiede. Ci vuole la consapevolezza dell’attualità del suo esempio, che va oltre la contingenza di quegli anni e delle complessità di quelle specifiche vicende. Dall’altra parte, però, anche ora, in questi anni di rassegnate disillusioni e di paure dilaganti, anni di perdita di fiducia e di omologazione al ribasso, continuano a esserci professionisti, che in nome della collettività, accettano di scontrarsi contro i limiti alla libertà. Ed è questo il principale lascito e l’attualità di Giorgio Ambrosoli.
Leo Nodari