25 giugno 1992 Paolo Borsellinotiene il suo famoso discorso alla biblioteca comunale di Palermo, e annuncia la sua morte e la prossima strage in diretta. Sapeva del carico di tritolo arrivato appositamente per lui. “Adesso tocca a me, sarò io il prossimo”. “Adesso tocca a me”. Quei cento chili portavano il suo nome e cognome. Il 19 luglio 1992, alle ore 16.58, un'auto imbottita di tritolo parcheggiata in Via D'Amelio, sotto l'abitazione del giudice, uccideva Paolo Borsellino e gli agenti della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Totò Riina affondava la lama nel burro. Era contento, rideva e si fregava le mani per la piega che avevano preso gli eventi.Cosa Nostra gli andava dietro perché ormai aveva solo da guadagnare, con la recrudescenza dell’ escalation criminale.Certi uomini politici, che avevano tutto da temere, tutto da perdere, vita inclusa, essendo già stati, in passato, troppo vicini, troppo permeabili a quel mondo criminale, scommettevano sul buon esito dei colloqui tra Stato e antistato, di quei pourparler tutt’altro che candidi, innocenti, disinteressati. Colloqui che, con ogni probabilità, essi stessi avevano sollecitato e favorito. Nasce cosi la strage di via D’Amelio, e nasce per questo “… uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana". Che si poteva dire di più? Parole che non potrebbero essere più chiare.
Ma quali erano le finalità di uno dei più clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si chiedono i giudici. La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, e, sospetto ancor più inquietante, "l'occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l'opera del magistrato". Una cosa è certa. La strage di via D’Amelio, in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta “non fu solo mafia”. Scandisce bene le parole il consigliere del C. s. m. Antonino Di Matteo, al processo sul presunto depistaggio sulle indagini sulla strage del 19 luglio 1992.
Ci sono eventi che fanno la storia di un Paese, che diventano memoria collettiva. La strage di via D’Amelio è uno di questi. La strage piombò sugli italiani con una violenza tale da lasciarli a lungo sbandati, senza punti di riferimento, con una coscienza civile messa a dura prova dalla frustrazione provocata dall’incolmabile senso di perdita dovuto al danno subito dallamiscela esplosiva che dilaniò una calda domenica palermitana. Uno sbigottimento irreversibile,dopo soltanto 57 giorni dalla strage di Capaci. Primavera-estate 1992 Se la povera Italia non avesse avuto alle spalle una già lunghissima scia di colpa e sangue, verrebbe da dire che in quel 19 luglio 1992 si conclude la nostra età dell’innocenza. In quella stretta via sotto il monte pellegrino, vicino allo stadio di Palermo, via D’Amelio, termina una Storia e ne comincia un’altra. “Come tutte le cose umane, anche la Mafia ha un inizio e avrà una fine…”, disse Giovanni Falcone in una famosa intervista, poco prima di saltare in aria su un maledetto rettilineo dell’autostrada A29, insieme alla moglie Francesca Morvillo e tre uomini della sua scorta. Infatti è cambiata la mafia. Infatti è più intelligente e colta la mafia. Ha lasciato la lupara e la tuta da pecorai la mafia. Indossa la giacca e la camicia bianca la mafia. E’ cambiata ma non è finita, la mafia che anzi è più forte, è più presente. Ha lasciato le terre desolate e insanguinate di Corleone ed ora è padrona nei grattacieli della city londinese. Quel giorno, quel 19 luglio di 28 anni fa, con una mattanzachiuse la tragica stagione delle stragi, portando l’attacco al cuore dello Stato dopo averne contaminato e infine incarnato interi pezzi. Oggi sono ventotto anni da quella primavera-estate che si portò via i due magistrati-simbolo di una lotta ad armi impari contro Cosa Nostra . È stato il nostro 11 settembre. E il nostro 11 settembre lo vogliamo celebrare , con un ricordo di quelle persone e di quel tempo, perché la pandemia ci ha precluso anche questo momento di memoria collettiva da vivere e rivivere ogni volta tutti insieme. Paolo Borsellino è morto perché non ha avuto paura, perché ha lasciato che la paura “non diventasse un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”, come amava ripetere. Oggi si attende ancora la voce di Paolo Borsellino, non la frequenza registrata, non una riproduzione, il suono autentico nel momento in cui è stato emesso. La domanda che sorge spontanea è sapere se quella voce di un uomo solo è scampata alla strage oppure se è rimasta seppellita sotto i calcinacci di via d’Amelio.
Leo Nodari