Quello che una sentenza di corte di assise definisce “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”non è ancora un caso chiuso e destinato agli archivi. A ventotto anni dall'esplosivo che ha fatto saltare in aria il procuratore Paolo Borsellino e i cinque poliziotti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, c'è qualcosa di sempre più oscuro che affiora dal passato e che fa molta paura. Una corte di assise scrive che "Soggetti inseriti negli apparati dello Stato” indussero il falso pentito Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage. Una corte di assise scrive che “a quelle indaginidecisamente irrituali parteciparono agenti dei servizi segreti guidati da quel Bruno Contrada che, qualche mese dopo, sarebbe stato arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa. Una corte di assise scrive ancora che “il bersaglio del massacro, Paolo Borsellino, non fu mai ascoltato dalla magistratura che investigava su Capaci durante quei 57 giorni che separarono la sua uccisione da quella del giudice Giovanni Falcone”.
Ma leggendo le 1856 pagine della sentenza del cosiddetto Borsellino quater (presidente della Corte Antonio Balsano) ci sono tracce che orientano verso altri misteri e ci sono piste che dirigono al cuore dello Stato.Si intravedono "suggeritori” e "talpe”, mandanti ed esecutori di un'inchiesta pilotata per trasportare lontano. Un pezzo di Stato alla ricerca della verità e un pezzo di Stato che la verità ha cercato di coprirla. E in mezzo il dolore e le grida dei familiari. Come quelle di Fiammetta Borsellino che grida il suo dolore: “Il silenzio degli uomini delle istituzioni è peggio dell'omertà dei mafiosi”.
Nella memoria di molti italiani, della maggior parte di noi, sono fissati indelebilmente il momento in cui abbiamo saputo che Giovanni Falcone era stato ucciso a Capaci . E il dolore e la rabbia per la strage che poche settimane dopo ci tolse anche Paolo Borsellino. Più lontano nella memoria, lo sgomento per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Tre momenti in cui lo Stato apparve perduto, incapace di fermare un’organizzazione criminale che sembrava invincibile.Oggi, è giusto ricordare che se alcuni , pochi, corrottitradirono lo Stato che dicevano di servire, molti magistrati, poliziotti, carabinieri si sono invece battuti strenuamente, con pochi mezzi, rischiando la vita, sacrificando gli affetti, per fermare il contagio mafioso, hanno vinto la battaglia contro i corleonesi e hanno permesso alla Sicilia e all’Italia di tornare a vivere. Insieme a loro ci sono le vittime innocenti e la società civile, che da Palermo a Milano fu capace di mobilitarsi, di non girare più la testa dall’altra parte e di dire ad alta voce che la mafia era un’emergenza nazionale.
Certamente sappiamo che è stata vinta una battaglia, non la guerra contro la mafia. Bisogna continuare, insistere, non mollare.
Oggi è giusto ricordare quegli uomini miti e silenziosi come Antonino Caponnetto, che da volontario prese il posto di Rocco Chinnici — l’ideatore del pool antimafia ucciso da un’autobomba nel 1983 — e trasferì nella lotta alla mafia le strategie utilizzate per sconfiggere il terrorismo, chiamando con sé Falcone e Borsellino. Viveva blindato in modo monacale di cemento armato, tra il palazzo di giustizia e la caserma della guardia di finanza. Senza poter uscire, senza potersi affacciare da quel cubo di cemento che era la sua casa. Con i libri come unica compagnia. Una dedizione assoluta che proseguì nell’instancabile viaggio — lasciata la toga — nelle scuole italiane, per raccontare con il suo accento toscano la lotta alla mafia e per educare alla legalità.Questa è l’Italia a cui dobbiamo guardare nel tempo in cui la ’ndrangheta la fa da padrone, in cui dilaga la corruzione e le piccole mafie proliferano a Ostia come a Modena, ricordando i molti che mai si arresero e mai si adeguarono.L’elenco delle vittime è impossibile, ma ricordare alcuni nomi per tutti è doveroso: Cesare Terranova, Giangiacomo Ciccio Montalto e Antonino Scopelliti, Boris Giuliano, Ninni Cassarà e Beppe Montana; il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, che venne colpito mentre guardava i fuochi d’artificio insieme alla figlia di 4 anni.Ci sono poi gli uomini e le donne delle scorte. Più di 60 angeli saltati in aria o trucidati. Volati in cielo per fare il loro dovere.
L’Italia non è guarita e la criminalità organizzata non è stata estirpata ma la Piovra, quella che organizzava le stragi, i massacri e strangolava una città, un’isola e un Paese quella è stata sconfitta. Ora dobbiamo pretendere con forza la restituzione di una verità, non qualsiasi, non una mezza verità, ma quella utile a dare un nome e un cognome “alle menti raffinatissime”, che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello Stato e impedire la ricostruzione dei fatti". E' questa la denuncia di Fiammetta Borsellino, che faccio mia.Quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore immediatamente successive alle esplosioni, ore fondamentali per le acquisizioni necessarie per uno sviluppo delle indagini. Questo "per me e la mia famiglia non può passare in secondo piano, come non può passare in secondo piano che per le false piste investigative ci sono stati uomini che hanno scontato ingiustamente anni di detenzione", ha aggiunto Fiammetta Borsellino.Questa restituzione di verità "deve essere anche per loro". La verità è l'esatto opposto della menzogna ed è una cosa che dobbiamo ogni giorno cercare e pretendere, e non solo ricordarci nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, possiamo vivere in un Paese libero dal puzzo e dal ricatto mafiosi. Per la figlia di Borsellino "ricordare Giovanni, Francesca, mio padre e gli uomini delle scorte che li proteggevano significa coltivare e nutrire la memoria, necessaria non solo per andare verso il futuro, ma anche per dire da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della libertà, della verità e della giustizia per le quali sono morti".
Leo Nodari