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Giornaleborsellino

Un velo nero di morte, sangue, orrore, menzogne, misteri, collusioni, depistaggi e vergogna ammanta ancora la storia della strage di via D’Amelio. Per raccontarla basta una domanda: sapete chi ha ucciso Paolo Borsellino?No, non lo sapete: non si sa. L'Italia celebra il28°  anniversario della morte di un suo eroe senza saper dire chi l'ha ucciso. In quell’ incredibile caos di vero e falso, noto e oscuro, mafia e Stato, che sono state le indagini sull’uccisione del magistrato Paolo Borsellino.Il 19 luglio 1992, la strage di via D’Amelio a Palermo: è una storia di misteri, orrore e menzogna, in cui l’Italia celebra un suo eroe sapere allontanare i sospetti che nella sua morte c’entri lo Stato.Con innocenti -indicati da un falso pentito - che saranno condannati e resteranno in carcere per quasi vent’anni, prima che quella costruzione si riveli un falso non plausibile. Con i servizi segreti dello Stato italiano sputtanati da un vero pentito. Che vergogna. 

Un tribunale oggi scrive che, dopo quello che era successo, appena 56 giorni prima, sull’asfalto dell’autostrada all’altezza di Capaci, la strage di via D’Amelio doveva e poteva essere evitata. Tradotto: lo Stato avrebbe dovuto e potuto assumere misure di protezione all’avanguardia, ma anche semplici tipo non far parcheggiare le auto in via D’Amelio, per salvare la vita del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scortaAgostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.Oggi leggiamo che le stragi di Capaci e via D’Amelio potevano essere evitate, ma le istituzioni fecero finta di niente. E sale tanta rabbia. Una tesi supportata da precisi elementi tecnici, frutto di anni di studio, e messa nero su bianco.A Paolo Borsellino, spazzato via da un'autobomba sotto casa di sua madre, in via D'Amelio a Palermo, piaceva citare dal Giulio Cesare di Shakespeare la frase secondo cui "è bello morire per ciò in cui si crede. Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola". Il fatto è che l'omicidio di Borsellino è ormai diventato uno di quei buchi neri della storia italiana, simile in questo al rapimento Moro, in cui come in un gorgo si annodano e si raccolgono tutti i misteri, i protagonisti, le inconfessabili verità di un paese che ha sempre avuto molto da nascondere, in primo luogo a se stesso. La ricerca della verità sul suo assassinio implicava un contributo di onestà, che è stata soffocata. Difficile ormai che si possa recuperare il tempo perduto, perché ormai quella stessa ricerca della verità è strettamente connessa (i luoghi, i palazzi di giustizia, i contesti) con la ricerca delle ragioni della disonestà di chi doveva cercarla. E dunque, diventa un'impresa quasi impossibile. Ma quello che è possibile fare è mettere insieme tutti i pezzi, ripulirli a uno a uno e metterli nell'ordine giusto, per raccontarli a chi li ha dimenticati, o li ricorda solo confusamente. Borsellino scriveva: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. Anch’io non mi sarei mai immaginato di occuparmi di mafia. Poi ho continuato per un problema morale. Ho aperto gli occhi e ho visto quanta gente è morta. 

Il 19 luglio del 1992, alle ore 16:58, una Fiat 126 imbottita di esplosivo viene fatta esplodere, tramite telecomando a distanza, in Via Mariano D’Amelio 21. Saltano in aria dilaniati il magistrato Paolo Borsellino, gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico agente sopravvissuto all’attentato è Antonio Vullo, rimasto nell’auto di guida perché stava facendo manovra e si trovava alla testa del corteo.  Sono trascorsi ventotto anni da quel terribile giorno: macchine bruciate, vetri frantumati a causa della violenta deflagrazione e un’enorme nube nera che si alzava in cielo per avvolgere Palermo di detriti e dolore. E vittime innocenti di una infame trattativa tra Stato e antistato.

Un’estate interrotta bruscamente dalle lacrime amare per una speranza interrotta, perduta. “La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” diceva Paolo Borsellino. Da ventotto anni, però, sembra che la verità su quanto accaduto in Via D’Amelio e Capaci, sia mera utopia. Inchieste, sentenze, hanno certamente portato alla luce una verità processuale, lasciando però grosse zone d’ombra che attendono una risposta da tanti, troppi anni. I figli di Borsellino, oggi, chiedono verità e giustizia in merito a quanto realmente accaduto quel pomeriggio di luglio 92. Con parole incisive sollecitano le istituzioni a far chiarezza sui veri responsabili di quello che viene definito il più grande depistaggio della storia d’Italia. Ancora oggi ci si chiede: chi ha voluto la morte di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone? Perché?

Falcone e Borsellino sono stati uccisi a Roma ? La mafia è stato solo il braccio, altri lo hanno armato ? Il numero di testimonianze, di pentiti, di indizi che, regolarmente, indicano nella politica, massoneria e nell’imprenditoria l’origine dei delitti di Capaci e di via D’Amelio potrebbero riempire intere enciclopedie. Cui prodest? Alla mafia non sembra. Da Riina, a Brusca, ai fratelli Graviano il delitto Borsellino è costato il carcere a vita. I giudici al cimitero e i mafiosi in carcere. E gli altri? I mandanti dove sono? Nessun politico è finito in galera per i due omicidi più eccellenti della Repubblica. Eppure i loro nomi emergono senza sosta, come l’acqua da un catino bucato, una verità che non si può fermare. Troppi ne sono a conoscenza e troppo pochi ne hanno goduto i benefici.Ventotto anni dopo ignoriamo chi volle la strage, chi c’era dietro i balordi malacarne cheazionarono il telecomando della strage di via D'Amelio.La mattanza di quel 19 luglio 1992 pone ancora una serie di domande senza risposte: come è sparita l'agenda rossa nella quale Borsellino segnava incontri, confidenze, ipotesi di lavoro? Dov'era posizionato l'uomo con il telecomando? Fino a che punto i servizi segreti sono stati coinvolti nella trama? Come e perché dopo pochi minuti dalla strage arrivarono gli uomini dei servizi ? Perché il depistaggio con il falso pentito ? Fu torturato per mentire ? Gli inquirenti hanno sbagliato per amore di carriera o per coprire pezzi dello Stato coinvolti con le cosche? Le rivelazioni di Gaspare Spatuzza hanno sbugiardato la ricostruzione ufficiale dell'eccidio su cui si sono basati tre processi con 47 condannati. Oggi sappiamo che Cosa Nostra partecipò alla preparazione dell'attentato e che Borsellino fu ucciso perché non ostacolasse la trattativa condotta dai carabinieri con Riina attraverso la mediazione di Vito Ciancimino. La rilettura dei verbali, le dichiarazioni dei testimoni, l'incrociarsi di vecchie e nuove verità aprono uno scenario rabbrividente. Un filo rosso lega via D'Amelio a Capaci. Falcone e Borsellino puntavano su Roma ? Nei suoi cinquantasette giorni di corsa contro la morte Borsellino aveva capito l’intrecci tra mafia e politica, magistratura e massoneria.Lo Stato, nel cui nome sfidava il Male, fece ben poco per proteggerlo. A noi non resta che piangerlo. Pregare. Non dimenticarlo. E chiedere la verità. La verità vera, non una verità di comodo. Per quello che una sentenza di corte di assise definisce “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.

Leo Nodari