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Il sabato santo, è il giorno “frammezzo”, che sta tra il giorno della morte di Gesù e quello della sua resurrezione. È un giorno di silenzio e di attesa, che non sta solo nella settimana santa ma diventa un’ora, un tempo, a volte una stagione nella vita del cristiano. Dobbiamo anche confessare che è un giorno scomodo, che appare vuoto, e non è un caso che fino a qualche decennio fa fosse stato, per così dire,  espulso dalla liturgia stessa. Ho buona memoria di come si viveva il triduo pasquale fino a qualche anno fa. Non tanti.
Il venerdì santo era celebrato in un clima severo, penitenziale e di lutto. Guai a gridare, giocare, sentire la radio e non c’erano programmi in Tv. Al pomeriggio vi era la liturgia della croce nella quale, scalzi, si andava a inginocchiarsi davanti al grande crocifisso. Immancabile la presenza alla processione di don Arturo Mazza e don Giovanni Iobbi, con il Cristo morto che solcava le vie, mentre canti funebri e dolorosi, davvero struggenti, ricordavano che la madre dolorosa stava presso la croce piangente accanto al corpo del Figlio. Il venerdì santo era un giorno di tenebra, con le Lamentazioni di Geremia cantate su toni cupi, accompagnava i sentimenti di tristezza.

Ma al mattino, quando avremmo dovuto vivere il sabato santo con il suo silenzio e il suo vuoto, in realtà c’era un darsi da fare quasi convulso. Nelle case si coprivano con panni le finestre, in modo che non entrasse la luce e il buio permettesse di celebrare la vittoria. Vi era poca gente in chiesa in quel mattino: il prete, le suore, qualche donna e noi chierichetti… Pochi lo ricordano, ma la resurrezione si celebrava il sabato mattina, verso le dieci, in uno stile non certo di festa: si eseguiva un rito con fede ma senza un vero coinvolgimento delle emozioni e dei sentimenti di gioia pasquale. Poi, al suono delle campane (si diceva che “si slegavano le campane de lu dom’”), ci si segnava con il segno della croce. E così il sabato santo di fatto non si viveva, mentre alla domenica – allora sì – si andava tutti alla liturgia eucaristica (la messa) della resurrezione, poi si faceva festa in famiglia ng lu timball’, li mazzarell e lu gnill’.

Ma con Giovanni Paolo II ecco riapparire il sabato santo, ecco la meditazione su di esso da parte dei grandi teologi, ecco la ripresa della continuità con la liturgia della Chiesa dei Padri. E così a poco a poco si riscoprivano i suoi significati: le donne attendono il giorno successivo per fare ritorno alla tomba, i sommi sacerdoti pensano che nulla possa succedere, visto che la tomba è vigilata dai soldati di Pilato, i discepoli presi dalla paura stanno in casa, a porte chiuse. Si impone un corpo esanime, chiuso con una grande pietra dentro una tomba, inaccessibile. Un giorno così vuoto appare il giorno più lungo! Si vorrebbe che finisse presto, perché mette alla prova la nostra adesione alle parole in cui abbiamo creduto, la nostra speranza in un esito di salvezza.  E invece siamo posti di fronte alla morte. Vorremmo accorciare quel giorno, vorremmo cancellarlo, eppure, nel triduo salvifico, è un necessario giorno frammezzo: si tratta di capire ciò che è successo, di guardare in faccia la realtà della morte come fine che si impone inesorabile, di esercitarci nell’attesa, vincendo costantemente i dubbi attraverso l’adesione alle parole di Gesù. Nel sabato santo la fede è costretta a combattere, a conoscere la propria debolezza. Lo scandalo della croce getta un’ombra, e in quest’ombra dobbiamo imparare a stare. Sì, nella vita prima o poi si va a fondo, ma andando a fondo troviamo Gesù che ci ha preceduti e ci attende a braccia aperte. Allora la nostra attesa finisce, il nostro lamento cambia prospettiva immaginando il giorno dopo. Sembra già di udire ““Non è qui, è risorto da morte, come aveva detto!”. Così, è proprio nel sabato santo che inizia quel giorno senza fine, senza tramonto: la Pasqua di Gesù e la nostra Pasqua.