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Domenica 25 maggio alle ore 18,30 nella sala convegni del porto turistico di Silvi si tornerà a parlare di Sergio Ramelli nella presentazione del libro del giornalista Giuseppe Culicchia “Uccidere un fascista” organizzata dai Fratelli d’Italia di Teramo con la partecipazione della consigliera passionaria Marilena Rossi, segretaria prov.le dei FdI, di Michele Petraccia coordinatore cittadino dei FdI, e dell’autore del libro che colloquierà con me per presentare la figura di Ramelli e individuare e far comprendere al pubblico  quale clima si respirava in quel tempo nel nostro Paese. Ricordo qui solo che  per molti, troppi anni, in Italia “Uccidere un fascista” non è stato considerato un reato dalla borghesia comunista, dalla presunta intellighentia sinistrorsa serva del potere, e da una banda di mascalzoni, utili idioti del sistema, che si definivano extra parlamentari ma in realtà erano solo extra delinquenti quasi tutti finiti con il leccare il culo al direttore di banca (come canta Venditti) o a fare gli impiegatucci extra sfigati gonfi solo di rabbia e oggipensionati sconfitti dalla storia,  pieni solo di rimpianti. Uno studente di diciott’anni di nome Sergio Ramelli fu ucciso a colpi di chiave inglese (8 vigliacchi contro 1) da questa gentaglia  vilePresunti antifà, molto distanti da valori come libertà e democrazia capaci solo di simili vergogne e slogan di odio. .Un omicidio così vile, efferato, brutale che a distanza di 50 anni  quel giovane è diventato oggi  il simbolo di patriottismo e di libertà. Ramelli il 29 aprile 1975, dopo più di un mese e mezzo di sofferenze, moriva a Milano. Il 13 marzo, mentre tornava a casa, era stato aggredito a colpi di chiave inglese da un gruppo di militanti di Avanguardia Operaia composto da otto persone, sette ragazzi e una ragazza che Sergio Ramelli non l’avevano mai visto, se non in foto. Già: perché Sergio Ramelli era stato schedato in quanto fascista, e una sua fotografia era stata fornita ai membri di quel commando incaricato di “dargli una lezione”. Usava così, a quel tempo. Sempre in aprile, “il più crudele dei mesi” secondo T.S.Eliot, a Roma, due anni prima erano stati trucidati due ragazzi, anzi un ragazzo e suo fratello, un bambino di dieci anni, colpevoli di essere figli del segretario locale della sezione del Movimento sociale. Furono bruciati in casa loro, mentre dormivano, in quello che sarà ricordato come il rogo di Primavalle. Gli assassini furono dei militanti di Potere Operaio. Era una casa popolare, era una famiglia umile, con sei figli, poteva essere una strage con più vittime. Si chiamavano Virgilio e Stefano Mattei. Come i fratelli Mattei, Mikis Mantakas,  Pedenovi, Ciavatta, Bigonzetti, Falvella, Venturini, Zilli, Giralucci, Mazzola, il mio amico Paolo Di Nella che divideva l’appartamento con me in via Vicenza. Nomi dimenticati, giovani morti per la libertà del Paese che amavano. Il nostro Paese. L’Italia. Tra il 1970 e il 1983 più di venti giovani di destra persero la vita a causa dell’odio rosso: tragedie dimenticate o minimizzate, spesso accompagnate da un giustificazionismo pericoloso. Ma l’infamia del caso Ramelli non finisce nella pozza di sangue. Si era all’indomani delle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia, e soprattutto a Milano la pratica dell’“antifascismo militante” era la risposta considerata legittima a quelle stragi: poco importava che l’obiettivo di turno nulla avesse a che fare con tutti quei morti. “Uccidere un fascista non è reato”, era lo slogan scandito da migliaia di voci nelle ricorrenti manifestazioni”. Sergio Ramelli era iscritto al Fronte della Gioventù, organizzazione di segno opposto, e aveva scritto un tema contro le Brigate Rosse, in cui sottolineava come i primi due omicidi politici commessi dalle Br non fossero stati condannati unanimemente dai partiti e dai giornali democratici: d’altra parte “uccidere un fascista non è reato” era lo slogan che, dopo le stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia, infiammava cortei e manifestazioni antifasciste. Quel tema, finito nelle mani del collettivo della sua scuola, era stato affisso in bacheca con la scritta “Questo è il tema di un fascista”. E da quel momento Sergio Ramelli era stato ripetutamente oggetto di minacce e violenze. Fino all’agguato fatale di quel 13 marzo. A distanza di cinquant’anni, quella di Sergio Ramelli rimane una figura divisiva: un simbolo e un martire per coloro che condividono le sue idee e che a ogni anniversario della morte lo ricordano con la cerimonia del “Presente!”, oppure un fascista che, in quanto tale, anziché ricordato andrebbe rimosso. Ma chi era davvero Sergio Ramelli? Era solo uno studente come tanti che giocava al calcio, che  aveva idee differenti da quelle dei comunisti violenti della sua scuola. Dopo i due volumi dedicati a Walter Alasia, brigatista che con Ramelli condivideva diverse cose oltre alla giovane età, Giuseppe Culicchia chiude la sua trilogia sugli anni di piombo con un libro che cerca di ricostruire la vita e la morte di un ragazzo ucciso dopo aver scritto un tema in classe, e di ricomporre le schegge di una deflagrazione che, cominciata con la bomba di piazza Fontana, ha attraversato tutto il paese e ha continuato a ferire e ammazzare per oltre un decennio.La sua morte è dunque emblematica di un periodo storico in cui un’intera generazionePer 50 anni è sembrato che non fosse successo nulla, è sembrato che Ramelli non fosse mai stato ucciso. Gli assassini scrissero che “non volevano ucciderlo” ma l’avevano colpito forte e colpito a morte con spranghe di acciaio.  L’epilogo sa di ingiustizia di cui però nessuno parla. E chi cerca di dar voce a vittime volutamente silenziate, viene silenziato a sua volta. Un accanimento paradossale contro unragazzo senza colpema che, alla fine, lo ha reso eterno.

Leo Nodari 

Mikis Mantakas