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 paolo_borsellino.jpgE’ l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio. Porta in spalla la bara di Giovanni Falcone, gli restano pochi giorni. Una pioggia violenta lava Palermo, il carro funebre è già scomparso fra i vicoli che scendono verso il mare. Anche il becchino ha fretta di seppellire il morto. È solo, adesso è solo come non lo è stato mai. Tutti conoscevano la sorte che gli stava toccando. Era il bersaglio privilegiato. Tutti. E, lui per primo, è andato avvertito incontro al suo destino. Forse non c'è stato delitto più clamorosamente annunciato nemmeno nella Palermo dove l'omicidio politico- mafioso di tipo "preventivo-dimostrativo" era sempre preceduto dall’annuncio. Uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte, fino all’ultimo non si rassegna. Ha rabbia e orgoglio per non piegarsi nemmeno ai nemici più invisibili. Si getta nel vuoto Paolo Borsellino Va incontro al suo destino tenta disperatamente di sopravvivere fino a quella domenica afosa di mezza estate.
Arriva veloce il 19 luglio. Abbiamo l'attentato, ci sono i sicari di Cosa Nostra e quegli uomini “in giacca e cravatta” che si materializzano in via Mariano D'Amelio poco dopo l'esplosione. Ci sono montagne di atti processuali ma non c'è ancora una piena verità su chi ha voluto morto Paolo Borsellino. 19 luglio 1992 Borsellino viene dilaniato da una bomba ma quando è morto Paolo Emanuele Borsellino, siciliano, magistrato della Repubblica, padre di tre figli, assassinato dall'esplosivo mafioso e tradito da uno Stato che non ha mosso un dito per salvarlo? È morto il 19 luglio in via Mariano D' Amelio o era già morto il 23 maggio a Capaci, quando alle 17,58 l'autostrada si è aperta e il suo amico Giovanni Falcone se n' è andato poi fra le sue braccia? È morto la sera del 25 giugno quando ha fatto pubblicamente testamento nella biblioteca di Casa Professa? È morto nel lontano '84 quando di giorno aveva la scorta e di sera no o è morto nell' 88 quando dopo il maxi processo a Marsala era rimasto solo contro la mafia? Una sentenza di Corte d'Assise definisce l'inchiesta sull'uccisione del procuratore “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, il caso però non è chiuso e forse solo la storia ci dirà cosa è accaduto a Palermo in quell'estate. Quando è morto per davvero Paolo Emanuele Borsellino, nato il 19 gennaio del 1940 nel quartiere arabo della Kalsa e diventato eroe solo dopo che i becchini l'hanno seppellito nel cimitero di Santa Maria del Gesù? Se vogliamo raccontarla sino in fondo la storia di quest'uomo che per cinquantasei giorni abbiamo visto come un cadavere che camminava per Palermo, bisogna fissare nella nostra mente soprattutto le date di quell'estate breve del '92, bisogna inseguire le ombre che si muovevano al tempo fra la Sicilia e Roma, bisogna riascoltare la sua voce.
Era considerato l'erede di Falcone e dunque un bersaglio, il testimone che ha raccolto le ultime confidenze dell'amico eppure - in quei cinquantasei giorni di delirio fra Capaci e via D' Amelio - nessuno lo cerca, nessuno l'ascolta mai. Vuole parlare e non lo fanno parlare, vuole indagare e non lo fanno indagare. Le pigrizie, il terrore, le complicità. I magistrati che investigano sulla strage di Capaci (quelli di Caltanissetta) non lo convocano nella loro procura nemmeno per un caffè. Al Consiglio superiore della magistratura non gli consentono di affiancare i suoi colleghi per condurre l'inchiesta. I poliziotti della sua scorta sono preoccupati. Lo dicono. Lo scrivono È il 20 giugno. Borsellino viene a conoscenza di un quantitativo di tritolo per lui. A Radio carcere tutti lo sanno. Lui lo scopre per caso. Per l'ultima volta parla in pubblico la sera del 25 giugno. E mentre si tormenta ci sono personaggi degli apparati che tramano, che stanno scendendo a patti. Totò Riina ha appena stilato un "papello". Tutto s'incastra, tutto è a posto: il patibolo è pronto. Ormai ha capito tutto. È mattina, esce dalla sua casa sul mare a Villagrazia di Carini e prende per mano Agnese. Le dice: «Non sarà la mafia ad uccidermi ma saranno altri. E questo accadrà perché c'è qualcuno che lo permetterà. E fra quel qualcuno, ci sono anche miei colleghi». Alle 16,58 e 20 secondi del 19 luglio il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. Ma era già morto. I resti di Emanuela Loi, pezzi di carne insanguinata, finiscono appiccicati al quinto piano sulla parete dell' edificio. Non ci sono più neanche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Tutto era già scritto.
Leo Nodari