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PALAZZONERO

Il nero è qualche cosa di spento, come un rogo combusto fino in fondo, qualche cosa di inerte come un cadavere, che è insensibile a tutto ciò che gli accade intorno e che lascia che tutto vada per il suo verso. È come il silenzio del corpo dopo la morte, dopo la conclusione della vita”.

Parole di Wassily Kandinsky, uno che di colori se ne intendeva. Mi chiedo che reazione avrebbe avuto, contemplando il palazzo che, rimosse le impalcature che per mesi e mesi l’hanno tenuto in ostaggio (con tutta una strada), oggi si mostra al passaggio dei teramani, in pieno centro storico, proprio dietro all’ex scuola Savini. A trenta passi dall’attuale sede comunale di via Carducci, particolare questo del quale invito il lettore a prendere nota, perché tornerà utile. Torniamo al palazzo. E’ nero. Antracite, direbbe qualcuno, quasi canna di fucile direbbero altri, io non ho conoscenze coloristiche tali da avventurarmi in un’analisi sulle mille sfumature di nero, mi limiterò ad un giudizio mio personale, puramente estetico. Non è nero… è brutto.
Inguardabilmente brutto e del tutto scollegato da ogni altra costruzione dell’intero Centro Storico. Sembra il monolite urbano di un architetto con maldigerite ispirazioni kubrickiane, il sogno castrato di un aspirante archistar senza ispirazione, un padiglione della Biennale in fuga dai Giardini, il provinciale e un po’ triste tentativo di imitare qualche nuova tendenza modaiola dell’architettura modernista. Sembra tutto, tranne quello che dovrebbe essere, e cioè un palazzo del Centro Storico di Teramo.
Perché a Teramo, benché ai più potrà sembrare incredibile, esiste anche un piano del colore urbano, così come un Piano particolareggiato del Centro Storico, che danno indicazioni abbastanza precise su quello che si può fare, su quello che non si può fare e su quello che non si dovrebbe neanche pensare di fare. Tipo un palazzo di un colore mai visto, per esempio.
L’articolo 30 della Variante al Piano particolareggiato, infatti, recita: “….Le tinteggiature devono essere preferibilmente a calce e comunque con colori da scegliere tra quelli caratterizzanti l’ambiente…”.
A questo punto, devo porre una domanda. Al Sindaco D’Alberto e al vicesindaco Cavallari, che ha la delega all’edilizia privata. Anzi, due domande. La prima: ve ne siete accorti che a tenta passi dal Comune c’è un palazzo completamente nero? La seconda: cosa si intende per “colori caratterizzanti l’ambiente”? Il nero è un colore che caratterizza l’ambiente urbano teramano? Quella specie di grosso sarcofago scuro, del tutto disallineato da ogni altra scelta cromatica esistente in Centro, e a mio avviso completamente decontestualizzato dal tessuto urbano, è considerabile una “variabile accettabile” del Piano del Colore? A beneficio della riflesione, pubblico alla fine di questo articolo la foto del "come era", con quella delicatezza antica di grigi chiari e più marcati e un'eleganza tutta sua. Tra l'altro, mi sembra di intuire che il palazzo si sia alzato di un mezzo piano, ma si sa: il nero sfina..
Questo articolo, potrebbe finire qui. Chiudersi con queste domande.
E invece no.
Perché c’è un ultimo aspetto, che fa di questa vicenda una storia ancor più fastidiosa, che va ben oltre il puro giudizio estetico di chi scrive queste righe: in quell’edificio, vive un alto funzionario del Comune. Cioè un collega dei funzionari che hanno approvato quel colore. Perché - e lo dico a scanso di equivoci - sono loro i responsabili unici di quella che io considero un’offesa cromatica alla città. Loro, non il proprietario, che ha seguito un suo desiderio e che ha chiesto (seguendo - sono certo - tutto l’iter previsto) di colorare la sua casa di nero. Erano i funzionari del Comune, quelli preposti al controllo che avrebbero - secondo me - dovuto dire di no. Che avrebbero dovuto pretendere che si scegliesse tra “…i colori caratterizzanti per l’ambiente”. Perché non l’hanno fatto? Quali considerazioni hanno favorito il loro placet? Chiedo qui, in queste righe, che il Comune, per bocca del Sindaco o dell’assessore, mi spieghi quali siano le ragioni che hanno consentito quella tinta nera, fugando il cattivo pensiero, che qui confesso perché mi sia smentito, che se non si fosse trattato di un collega forse le cose sarebbero andate in maniera diversa, perché è un cattivo pensiero che investe le logiche stesse del nostro essere una comunità, mortifica il criterio del pari trattamento tra i cittadini e lascia in bocca un vago sapore amaro di privilegio.
E mi mette di umore scuro.
Anzi: nero.

Adamo

 PALAZZOVECCHIO