Quanto costa togliersi “il sassolino dalla scarpa”
“Ho un sassolino nella scarpa” cantava Natalino Otto.
E’ capitato a tutti di volersi liberare di quel sassolino, di voler dire quella cosa che non si dovrebbe ma non si riesce proprio a trattenere. E diciamolo pure: avere uno smartphone tra le mani incoraggia quell’impulso irrefrenabile che talvolta anima anche la persona più pacifica e mite.
E’ bene stare attenti però e non solo per evidenti ragioni di civile convivenza e di rispetto del prossimo. La reputazione è un bene fondamentale: le ragioni di dissenso e/o di critica non diventano meno efficaci se espresse con un linguaggio appropriato, consono, scevro da forme di facile sensazionalismo.
E’ dell’8 settembre 2021 una sentenza che richiama tutti ad un uso corretto dei moderni mezzi di comunicazione, come ad esempio su whatsapp
La storia è questa: Un signore aveva pubblicato sul suo “stato” di whatsApp dei contenuti lesivi della reputazione di una donna che, visto quello stato, decide di sporgere querela per diffamazione.
Ricordiamo che commette il reato di diffamazione(art. 595 c.p.)
- “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito [c.p. 598] con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032.
- Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065 .
- Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico [c.c. 2699] , la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516
In primo grado, all’esito dell’istruttoria, l’uomo è stato ritenuto colpevole, idem nel giudizio di appello dopo il quale l’imputato decide di ricorrere per Cassazione.
La difesa:
L’imputato sosteneva che, nei giudizi svoltisi, non fosse stata raggiunta la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, della riferibilità dei contenuti pubblicati sullo stato di whatsApp alla donna querelante. Mancava, inoltre, sempre ad avviso dell’imputato, anche la piena prova in ordine alla diffusività del contenuto poiché non era stato dimostrato che i suoi “contatti” della rubrica disponessero di whatsapp e che, di conseguenza, potessero visionare il suo stato.
In questo modo ha provato ad argomentare l’insussistenza del reato di diffamazione, sia per la mancata identificabilità della persona offesa sia per la reale mancata estensione a terzi delle frasi lesive della reputazione altrui.
La Corte di Cassazione ha respinto il suo ricorso.
La Sentenza:
Con la sentenza n.33219/21 la Suprema Corte ha ritenuto che non vi fossero dubbi sulla riferibilità dei contenuti offensivi alla querelante e, rispetto al secondo profilo, i giudici hanno ritenuto illogica la tesi che l’imputato potesse aver permesso la visione dei contenuti incriminati solo alla persona offesa, bloccandone la visibilità a tutta la sua rubrica del suo cellulare. Se, infatti, l’uomo avesse inteso offendere la donna riferendosi solo alla stessa “sarebbe stato sufficiente mandarle un messaggio individuale”. L’uomo è stato condannato.
Usare i social con razionalità
Attenzione, dunque: i mezzi di comunicazione che estendono un “contenuto” a più persone (stato di whatsApp, gruppi whatsApp, stato di facebook, profilo facebook, stato instagram, profilo instagram, etc…) devono essere utilizzati con razionalità. Quel sassolino a volte… va lasciato dov’è!
Manola di Pasquale
https://www.manoladipasquale.it/