
Dopo aver assistito, a Teramo, al delirio degli aperitivi in ogni angolo della città, mi sono posta una domanda semplice e insieme scomoda: che cosa stiamo davvero festeggiando. Il Natale nasce come festa religiosa, la nascita del Salvatore, la liberazione dell’uomo dal peccato, l’annuncio di una rinascita possibile. È per questo che si fanno gli auguri: perché si celebra una nascita che porta speranza, che invita al cambiamento, alla responsabilità, alla cura dell’altro. Il Natale, per sua natura, è attesa, raccoglimento, silenzio. Non frastuono. Eppure ciò a cui ho assistito racconta tutt’altro: musica assordante, baccano, consumo continuo, aperitivi che si susseguono fino a notte fonda la sera della vigilia e il giorno stesso di Natale. Un rito collettivo che sembra aver perso ogni legame con il significato di questa giornata. Mi chiedo allora come tutto questo si concili non solo con il messaggio religioso del Natale, ma anche con quello laico, che pure esiste ed è profondissimo. Perché il Natale, anche al di fuori della fede, è il simbolo della rinascita, della fragilità che diventa valore, dell’umanità che si salva non con la forza, ma con la solidarietà, con la prossimità, con il prendersi cura. Se questo messaggio non è conosciuto, se non è più nemmeno interrogato, cosa festeggiano questi giovani, e più in generale queste persone?
Non una nascita, ma una distrazione.
Non una rinascita, ma un’abitudine vuota.
Non una comunità, ma un individualismo rumoroso. Il rischio, evidente, è che il Natale diventi una festa senza memoria e senza senso, ridotta a evento sociale o commerciale, dove si consuma molto e si riflette poco. Si fanno gli auguri, ma non si sa più per cosa. Forse il problema non sono i riti laici in sé, ma l’assenza di una domanda sul significato. Perché senza significato, ogni festa si spegne nel rumore. E il Natale, invece, nasce nel silenzio.
MANOLA DI PASQUALE

