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0471DB4E ABE8 46A7 9663 2B7CF86ACEF7“ Per me è stato un grande onore questo Premio Speciale, raramente si trova un pubblico così rispettoso, attento e sorridente, a Teramo ho trovato un senso di calore umano, questo mi ha molto molto convinto, mi è piaciuto moltissimo”. Così inizia il dialogo con Antonio Debenedetti giornalista del Corriere della Sera dal 1963 e scrittore che, nei giorni scorsi, ha ricevuto il Premio Speciale ( sezione del Premio Teramo) per una raccolta edita con il libro “Quel giorno quell’anno”.


Lei è un giornalista e uno scrittore, quanto del giornalista c’ènello scrittore?


Pochissimo perché io ho fatto il giornalista per vivere, di letteratura non si vive. Io scrivo racconti libri che hanno molte recensioni, successo di critica ma non hanno successo economico. Ho fatto il giornalista con molto scrupolo ma i due mestieri li ho sempre divisi . Da molti anni sono stato nominato al Corriere inviato speciale per la cultura e questa definizione le dice che io mi occupavo soltanto di scrittori, poeti, registi cinematografici, da quel momento in poi ho trattato una materia molto vicina alla letteratura. Ho sempre fatto lo scrittore con molto rigore, cercavo di dividere con la maggiore precisione possibile il tempo da dedicare alla letteratura e al giornale.Di solito scrivevo molto presto al mattino, alle sei ero alla scrivania e lavoravo tranquillo fino alle dieci, poi andavo al giornale. Avevo tutte le mattine quattro ore dedicate esclusivamente alla letteratura, un giorno libero alla settimana che occupavo per correggere, sono molto lento nello scrivere rifaccio la stessa pagina più volte, di molti racconti ho tre o quattro stesure. Ho scritto molti romanzi ma non li ho mai presentati agli editori, perché non mi piacevano, per uno sono arrivato a fare questo:avevo dato alla Rizzoli il romanzo e quando era in bozza mi sono accorto che non mi piaceva, ho pregato la Rizzoli di darlo indietro io gli ho dato una raccolta di racconti, non mi sentivo di pubblicarlo. Il lavoro dello scrittore deve essere una specie di religione non si può mescolare ad altro, lo scrittore deve inventare, il giornalista no, è un traduttore delle realtà deve far vedere e raccontare la realtà. Se io adesso faccio le recensioni è altra cosa, fare il critico non è fare il giornalista è fare un mestiere diverso dal giornalismo, che viene utilizzato dai giornali.


“Oggi non mi sento né ebreo né cattolico, o forse entrambi, dato che il Dio è uno solo. La mia unica religione è la letteratura, una “malattia” che mi ha salvato”


Sì questo è stato, lei deve pensare che io ho avuto la fortuna di avere come maestro di scuola elementare il poeta Giorgio Caproni che mi ha anche dedicato anche una sua poesia che chiama “Versi didascalici” pubblicata nel Meridiano. Caproni mi ha dette un’idea molto bella dello studio e del sapere, perché molto libera e molto creativa con questa idea ho attraversato molti anni della mia vita. Ho lavorato sempre nel ricordo di queste lezioni, studiavamo le poesie , le ripetevamo, le imparavamo a memoria.  All’Università non ho fatto bene gli studi regolari, li detestavo, ho fatto bene un solo esame quello con Ungaretti di Letteratura Italiana, ho conservato la fotocopia con il voto, è stato l’unico trenta e lode. Ungaretti, era molto affettuoso e non aveva l’aria del professore che era lì per dare un voto, aveva fatto un corso su Leopardi. Quando mi presentai mi chiese di parlare di Leopardi, io dissi “ è molto difficile parlare a un grande poeta di un grandissimo poeta”, mi guardò un attimo e poi  rispose “bravissimo trenta e lode”.


Nella prefazione del suo libro ha scritto “Io sono in questi due racconti”, come sono nati?


Il primo è nato molto semplicemente, una mattina uscii di casa e comperai il giornale  e trovai il rifacimento di una pagina che era uscita sul giornale quando furono decretate le leggi razziali. Mi misi nei panni di un ebreo che una mattina della sua vita legge il giornale e vede che è escluso da tutto , non ha più nessun diritto non esiste più, anche se non è un ebreo praticante. Queste leggi gli proibivano perfino il non voler essere ebreo, gli toglievano ogni diritto, anche il diritto di infischiarsene della sua religione di nascita, è una cosa terribile, un uomo sente che non può lavorare, non può protestare, non è niente. Lì c’è la sua angoscia e sente lentamente il desiderio di tornare alle origini, quindi va al ghetto con gli altri ebrei. Ha scritto molto bene di questo racconto Furio Colombo sul giornale “Il Fatto”.


“Scrivere è il mio modo di interpretare la realtà e di aderirvi”. Che cos’è per lei la scrittura?


La scrittura è stato il mio lavoro di tutta la vita. Perché da giovane, a 17 anni, ho scritto un libro di poesie esperimento giovanile con prefazione lusinghiera di Giorgio Caproni. Poi comincia a scrivere racconti, ma non subito, per anni ho lavorato sullo studio della Scapigliatura lombarda, poi ho studiato moltissimo Gadda e Manganelli. Successivamente ho capito che non studiavo questi due autori per scrivere come loro, volevo solo essere più padrone dell’italiano, un italiano un po’ anarchico, loro due sono scrittori preziosi ma anche dei ribelli. Nella loro prosa ho trovato il seme della rivolta , una rivolta che conta, non come fanno certi scrittori sperimentali che usano l’esperimento per non fare i conti con il buon italiano. Quando sono stato sicuro ho cominciato a scrivere, molto lentamente, il primo racconto è stato pubblicato sulla rivista Opera Aperta, poi il mio vero esordio è stato sulla rivista di Moravia  Nuovi Argomenti e da lì ho cominciato a scrivere sempre di più. Il primo libro che riconosco mio, senza le tentazioni giovanili, che tutti quelli che amano la letteratura hanno, perché della letteratura ci si innamora  ragazzo o non ci si innamora più, è “Ancora un bacio” che è uscito tanti anni fa, da lì tutti gli altri. Nel libro che ho lasciato alla Biblioteca Delfico ci sono dei racconti tratti da quel primo libro.


Un ricordo del suo papà Giacomo Debenedetti


Un ricordo di mio padre… è difficile, su mio padre ho scritto “Giacomino”. Mio padre era severo, voglio dire  in un modo molto particolare, credo che non mi abbia mai dato uno schiaffo, però poteva intimidire molto. Non ricordo di aver dato molti baci a mio padre, forse pochissimi, aveva questa autorità per cui lo vedevo come una specie di nume, di divinità che nuoceva un po’ all’affetto ma non alla formazione. Se io sono un uomo di una rettitudine assoluta e con disprezzo del compromesso, questo lo devo a mio padre. Anche la libertà di essere stato sempre fuori da tutti i partiti ma con delle precise idee politiche, un uomo che non si è mai fidato dei partiti,  anche questo lo devo a mio padre, che invece si era fidato dei partiti ma la sua era una generazione diversa. Mio padre aveva conosciuto Gobetti, scriveva sulle sue riviste, devo molto a mio padre che mi ha insegnato il rigore e l’amore della cultura. Mi lasciava leggere tutto, semplicemente mi diceva di lasciare un foglio di carta dove prendevo il libro, “perché debbo sapere dov’è quel libro e che lo hai tu”.

Anna Brandiferro

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