Marco Munaro è nato a Castelmassa nel 1960 e vive a Rovigo, dove insegna. Nel 2003 ha fondato «Il Ponte del Sale - Associazione per la Poesia» (premio San Vito al Tagliamento 2013; premio Catullo 2015). Ha pubblicato le raccolte poetiche: L’urlo, El Levante por el Poniente Edizioni, Conegliano 1990 (Premio Sinisgalli 1991), Cinque sassi, Edizioni della Cometa, Roma 1993, Il Rosario del Lido, in 5 Poeti del premio «Laura Nobile» Siena 1993, Scheiwiller, Milano 1995, Il portico sonoro, Biblioteca Cominiana, Cittadella 1998, Vaso blu con narcisi, I Quaderni del circolo degli Artisti, Faenza 2001, Ionio e altri mari, Il Ponte del Sale, Rovigo 2003, Nel corpo vivo dell’aria, Il Ponte del Sale, Rovigo 2009 (Premio San Vito al Tagliamento 2009), Berenice, Il Ponte del Sale, Rovigo 2014, L’arciere piumato, La Vencedora, Coyocàn, México-Vicenza 2015. Ha tradotto: Queneau, Rimbaud e Virgilio. La rivista «Atelier», nel n° 69 del 2013, gli ha dedicato una monografia critica
Munaro, che ruolo ha oggi la poesia?
Il ruolo della poesia oggi, al di là delle trasformazioni storiche e sociali che pure non possiamo né dobbiamo nasconderci, resta quello di sempre: dire, in una lingua “solo” umana, la straripante bellezza delle cose. La poesia è un varco, aperto dentro la lingua e nella coscienza dell’uomo, sull’abisso della realtà e del tempo, un sogno totale, che abbraccia ogni essere, la natura e la vita (anche il vuoto) – irrinunciabile per la comunità umana. E il poeta, questo “mendico cieco” che si aggira tra le rovine della storia, a interrogare le urne, canta, cioè parla a tutti, ai morti, ai vivi e alle specie future.
Quali sono i luoghi e gli spazi della sua poesia?
I luoghi che più sono entrati nella mia poesia sono quelli della mia terra natale, il Polesine, un arcipelago fatto d’acque e di cieli, plasmato dalle continue esondazioni dei fiumi, il Po e l’Adige, il Tartaro e le altre innumerevoli vene d’acqua, vasi tra loro più o meno comunicanti. Penso che la mia poesia ne sia intrisa, così come è vero che la corrente è penetrata nel mio sguardo. All’inizio è un punto preciso, il paese sul Po dove sono nato, sul confine tra Veneto, Emilia e Lombardia, la “casa”; poi, sono stati anche i Colli Euganei, i luoghi paterni, e il ricordo del mare di lava rappreso sull’oceano. E quindi il mare vero e proprio, l’Adriatico e il mar Ionio, soprattutto, molto amati e vagheggiati. Nei miei versi si ritrovano gli spazi aperti e liberi del viandante e quelli chiusi e angusti del sedentario, la stanza, la cantina, il pozzo. Credo che la poesia nasca dall’attrito generato, dentro e fuori di me, tra il finito e l’infinito: una “canzone oscura” di libertà e prigionia. Essa perciò include anche la verticalità, il “meridiano” di cui parlava Celan.
Lei è un insegnante della scuola superiore. Che rapporto c’è tra l’insegnante e il poeta?
Ho sempre cercato di tenere distinte le due figure, non mi sono mai
presentato ai miei allievi come il poeta, né ho mai, o quasi mai, letto loro una mia poesia, per una naturale avversione nei confronti di ogni esibizionismo. Ma ovviamente, essendo io un cultore della poesia e dei poeti, la poesia è entrata continuamente nelle parole e direi nell’entusiasmo dell’insegnante. Ma la poesia per me non è un genere letterario, è la matrice di ogni sapere, la linfa che scorre nell’Albero della Conoscenza, nell’Albero del Bene e del Male. L’insegnante deve mettere in guardia, “mettere innanzi” e poi farsi da parte. Ma c’è un’altra virtù che accomuna il maestro e il poeta, ed è la pazienza.
“Credo che i giovani siano naturalmente predisposti alla comprensione della poesia, il loro è amore per la parola che è viva, è una creatura, esce fresca”. Pensa sempre questo?
Sì, lo penso ancora. Ma non volevo con questo negare la natura elitaria della poesia e la sua marginalità all’interno del mondo culturale di oggi, misconosciuta com’è perfino da intellettuali e scrittori. Non parliamo della scuola, e dello stato della lingua, deturpata dalla “fretta” e dall’afasia dei linguaggi digitali, per cui il lavoro dell’insegnante di lettere sembra a volte destinato in partenza alla sconfitta.
“Scrivere è stato per me come nuotare nelle acque di un fiume, ogni bracciata... un passo più vicino all’ ignoto, le parole sono in cammino e ci portano con loro”. Perché è come nuotare nelle acque di un fiume?
Nella parola umana la dimensione fisica e quella spirituale sono intimamente fuse, la parola è voce e respiro e “idea” intangibile. La poesia non solo riafferma il rapporto tra queste due dimensioni ma lo complica infinitamente, musicalmente, nell’intervallo tra suono e senso (Valery). Per Leopardi, l’esperienza di questa strana, sublime felicità è stato il naufragio dolce nel mare dell’infinito. Il mio “infinito” sono state le sensazioni provate da ragazzo nel grande fiume, il Po, dove ho imparato a nuotare e spingermi al largo. Sensazioni ancestrali, di uomo-pesce, uccello-pesce, e dio.
Tesi di laurea su Andrea Zanzotto. Perché?
La poesia di Zanzotto mi pareva allora la più complessa, consapevole e aperta al futuro e insieme così ricca di echi stordenti e irresistibili, remoti e famigliari insieme. Volevo capire da dove veniva quel suo canto ammaliatore di sirena. La tesi è stato un tentativo di rispondere a questa domanda.
Zanzotto ha scritto che "la poesia è sempre di attualità perché rappresenta il massimo della speranza, dell’anelito dell’uomo verso un mondo superiore”. Che ne pensa?
È così anche per me – un respiro e un anelito, “nel corpo vivo dell’aria”.
anna brandiferro