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Foto Roberto MichilliAl premio Strega 2021 c’è il teramano Roberto Michilli tra gli autori segnalati. 

Gli abbiamo rivolto alcune domande.

​​La sirena dei mari freddi, edizioni Di Felice, candidato al 75° premio Strega. Grande emozione, vero?

​​Una grande emozione e una grande gioia che devo a due donne straordinarie: il mio editore Valeria di Felice, che ha intuito le potenzialità del romanzo e si è attivata in modo ammirevole per promuoverlo, e la signora Francesca Pansa che lo ha letto, lo ha apprezzato e ha deciso di propormi al Premio. Devo profonda gratitudine a entrambe.

​​La giornalista e scrittrice Francesca Pansa ha scritto “l’atmosfera è quella di un racconto dalla forte coloritura psicologica, con nuove comparse a infittire la scena, qualche rivelazione, qualche sorpresa e uno strategico flashback che portano alle pagine finali”. Che ne pensi?

​​Tutto il bene possibile. Trovo che la signora Pansa sia riuscita nel difficile compito di condensare in poche righe una presentazione dell’autore, un giudizio sul libro e una sintesi del suo movimento interno capace di invogliare alla lettura.   

​​Bisogna scrivere di cose che ci piacciono  altrimenti non siamo in grado di trasmettere emozioni”. La pensi sempre così?

​​Certo. Quando ho iniziato a scrivere, una trentina di anni fa, mi sono trovato davanti due problemi che chiunque abbia avuto l’infelice idea di dedicarsi a questa attività ha dovuto affrontare:  cosa scrivere e come. In altre parole dovevo costruirmi un mondo da raccontare, uno stile per farlo e una mia idea di letteratura. Del mondo dirò più avanti, rispondendo alla tua domanda sull’Abruzzo. Per la mia idea di letteratura furono decisive le parole di Giuseppe Pontiggia, scritte nelle sue lettere, dette a voce nei nostri incontri e lette nelle sue opere e interviste. Secondo Pontiggia, uno scrittore deve seguire la penna dopo averla indirizzata verso i sentimenti e gli interessi che per lui sono importanti e lo coinvolgono profondamente. Il risultato sarà stimolante non solo per gli altri, che ci ascoltano sempre con attenzione quando raccontiamo loro con sincerità e onestà ciò che sentiamo, i nostri convincimenti profondi, le nostre paure e i nostri desideri, ma anche per chi scrive, perché scoprirà cose che non sapeva di sapere su di sé e sul mondo. Perciò niente scalette dettagliate. Scrivere per Pontiggia non significava sceneggiare un’idea, ma compiere un viaggio di conoscenza alla ricerca di una rivelazione. L’autore quindi deve essere il primo lettore di se stesso. Questa lezione per me è stata decisiva, perché mi ha risolto una volta per tutte il problema di cosa scrivere. È una scelta che, a mio avviso, crea un discrimine profondo tra chi vuole scrivere con ambizioni espressive e letterarie e chi invece si chiede: di che cosa mi conviene scrivere per essere pubblicato e venduto?   

​​Un’altra lezione che ho imparato da lui è che scrivere con ambizioni letterarie richiede coraggio, molto coraggio. Tutto quello necessario per vincere le proprie paure, le proprie inibizioni, l’attrazione che esercita su di noi il fallimento. Diceva che siamo bravissimi a scavarci la fossa con le nostre stesse mani e a rinchiuderci in pregiudizi e gabbie da cui poi non sappiamo uscire. Scrivere, allora, è anche la capacità di liberarsi dai blocchi mentali, di attivare flussi di energia, di avere fede in se stessi e soprattutto nel lavoro che si sta facendo. E ancora, ma non certo per ultimo, la mia naturale propensione a una scrittura chiara e leggibile è stata corroborata dal suo alto magistero e dal suo esempio. Pontiggia ha sempre usato un linguaggio chiaro e preciso, nella convinzione, come scrive nel saggio su Daumal all’inizio del Giardino delle Esperidi, che il linguaggio oscuro «finisce per sottrarre all’esistenza proprio la sua oscurità, come il segno meno, moltiplicato per un altro meno, dà il più di una conferma. Solo il discorso chiaro può essere di una complessità inesauribile». E quanto alla leggibilità, il testo per lui era una stratificazione di significati, di cui quello superficiale deve essere comunque, e aggiungo io da chiunque, intelligibile. Come Pontiggia ribadisce nel citato saggio su Daumal, l’uso di un linguaggio corrente per esprimere verità lontane rispetto ai luoghi comuni è il compito principale della narrativa contemporanea. 

​​Scrivere, mi ripeteva spesso, è fare appello alle proprie risorse etiche, oltre che fantastiche, in uno sforzo di oggettivazione continuo, in un confronto anche duro e frustrante, ma necessario, con la risposta di chi legge. Risorse etiche nel senso che la voce di uno scrittore, cioè quello che lui scrive sulla pagina, deve essere filtrata e convalidata da quei criteri di verità che hanno dimora nella sua esperienza di uomo. Quindi bisogna essere responsabili del linguaggio che si adopera, riconoscersi in quel linguaggio. Scrivere in modo responsabile significa sforzarsi di non essere acquiescenti e passivi ed evitare che, per imitazione o per suggestione dei modelli, si finisca per usare parole che non corrispondono a quello che noi vogliamo dire, alla nostra esperienza, al nostro mondo. È necessaria pertanto un’attenzione scrupolosa a quello che si fa, e una continua riflessione su quello che s’è scritto. Si scrive per scoprire un linguaggio nel quale riconoscersi; si scopre di avere un mondo da esprimere, e lo si scopre attraverso la costruzione del proprio linguaggio. In ultima analisi è una questione di sincerità.  Si tratta di non falsificare e di costruire le proprie storie con parole che siano sì chiare ed efficaci, ma anche e soprattutto il calco del proprio universo interiore. Questa sincerità dell’autore verso se stesso gli permette di riconoscersi al meglio in ciò che scrive e diventa sincerità nei confronti del lettore. Quest’ansia di verità ha un prezzo altissimo, ma probabilmente è qui che corre il discrimine tra letteratura e ciò che letteratura non è. Quando si insegue la verità di se stessi si avanza su un crinale sottile e insidioso dove ogni struttura interiore diventa fragile e vulnerabile, esposta a un rimestamento che se da un lato tende a una trasparenza, al contempo ci pone in contatto con le nostre oscurità e i nostri misteri. Quando invece si congegna una trama che vuole solo allettare, divertire o distrarre il lettore, quando il lettore è considerato non un interlocutore costitutivo e senziente, ma solo un consumatore, questa tensione etica – sia detto fuor da ogni moralismo – è semplicemente e forse colpevolmente elusa. Conoscere se stessi è una chimera, riconoscersi nelle parole che ci appartengono è forse una conquista possibile, perché è in quelle parole che vive o sopravvive la nostra verità.

​​Avevo già quarant’anni quando ho cominciato a scrivere. Se da un lato questo mi ha svantaggiato sotto vari aspetti, dall’altro mi ha reso semplice individuare i sentimenti e gli interessi che per me erano importanti e mi coinvolgevano profondamente, dato che avevo già vissuto diverse esperienze e mi ero ormai formato una mia idea del mondo e della vita. Fin dall’inizio perciò ho indirizzato la mia indagine verso il desiderio. Inteso in senso lato, non ristretto alla sola connotazione sessuale. Per essere più preciso, verso i desideri di un essere umano che vive all’interno di una società avanzata occidentale, è mediamente acculturato e benestante, ha risolto i problemi essenziali dell’esistenza, non ha tragedie in famiglia, ed è in buona salute. L’essere umano preso al meglio delle proprie possibilità, insomma. Mi rendo conto che la mia è una posizione eccentrica rispetto alla imperante “narrativa del dolore”, ma a mio avviso il dolore è una facile scorciatoia, e figli abbandonati e ritrovati oppure maltrattati o abusati, famiglie problematiche, malattie e sventure di ogni tipo mi sembrano molto meno interessanti, narrativamente parlando, rispetto a un uomo o una donna che si pongono davanti al mondo nelle migliori condizioni possibili, hanno tutto a portata di mano e si mostrano quali realmente sono, non hanno più né scuse né alibi. E se in questo momento vedono davanti a sé il vuoto, è perché questo vuoto è anche dentro di loro, e credo che questo sia il vero orrore, la vera tragedia dei nostri tempi. È la qualità della nostra vita che si rispecchia nei nostri desideri: il benessere non ci cambia in meglio, anzi, e i nostri desideri ce lo dimostrano. 

​​Flora salì in macchina… sorrise a Luciana e le disse: “Vedrai l’Abruzzo è meraviglioso”, Abruzzo nel cuore anche in questo libro. Quali luoghi hai messo  e perché?

​​Piero Chiara ha scritto in Sale e tabacchi: « Guai, scrisse qualcuno, allo scrittore che non ha dietro di sé un territorio preciso, una geografia e addirittura una topografia ben definita, vissuta, nei confronti della quale possa verificare passioni e sentimenti. Ma è chiaro che un paese e un territorio, usati in tal modo, finiscono col diventare emblematici, che è come dire, almeno nell’aspirazione di chi li elabora in tal modo, universali.»

Quasi tutte le mie storie hanno come sfondo i luoghi a me più cari della mia terra d'origine, questo angolo d’Abruzzo al quale sono visceralmente legato. Non solo Teramo e Campli, quindi, ma anche le cittadine della costa, con una particolare predilezione per Giulianova, e tante zone dell’adorato Gran Sasso, con i Prati di Tivoin testa. Ma tutte queste località ho cercato di trasfigurarle in modo da farne un territorio mitico, che richiami quello reale ma nello stesso tempo ne costituisca una sublimazione. Un po’ come hanno fatto, si parva licet, William Faulkner con la contea di Yoknapatawpha (nome indiamo che si legge Ioknapatofa),  modellata sulla contea reale di Lafayette, nello stato del Mississippi, e Thomas Hardy con il Wessex, specchio del Dorset reale. Perciò ho sempre evitato di usare i nomi veri dei luoghi, paesi, città o montagne che fossero. I Prati di Tivo, per esempio, porta di accesso al Gran Sasso, è diventato Pian del Lupo, nominato nella Sirena dei mari freddi e presente in numerosi altri miei romanzi. 

​​Il rapporto che come scrittore ho con l’Abruzzo è stato mirabilmente descritto da un critico d’eccezione, il filosofo Fabio Brotto, che mi ha seguito dall’inizio della mia attività recensendo tutti i miei libri fino a quando questo maledetto virus non se lo è portato via nell’aprile del 2020, strappandolo crudelmente alla famiglia e ai tanti che gli volevano bene e lo stimavano. Nella sua recensione a Sentimental, Fabio scrive: «I romanzi di Michilli sono ambientati in Abruzzo, patria dello scrittore, ma nonostante la presenza di molti riferimenti a luoghi, abitudini e cibi locali (la realtà della vita è cibo, oggetti, musica, libri, strumenti, piaceri e sofferenze fisiche e morali, ecc.) non presentano alcun carattere di colorismo o di compiacimento regionale. Per dirla in altri termini, lo scrittore non è interessato tanto all’antropologia abruzzese quanto all’antropologia umana generale. L’Abruzzo è una porta per l’umano.» 

​​Del libro colpisce anche la copertina, disegnata da tuo figlio Giuseppe…

​​Mi sembra una rappresentazione simbolica efficace e di forte impatto visivo del titolo e del senso complessivo del romanzo. Il misterioso animale marino ci mostra solo una piccola parte di sé, il resto è nascosto nelle profondità degli abissi e del libro. C’è pertanto molto da scoprire su di lui, e lo faremo leggendo. I tentacoli che si agitano nell’aria suggeriscono un’immagine di pericolo, ma in un punto si incontrano disegnando un cuore, e ci dicono così che quella raccontata nel romanzo è pur sempre una storia d’amore, sebbene non convenzionale. Il freddo del titolo viene evocato dai colori gelidi delle onde e, ironicamente, dai coni gelato sullo sfondo. 

Roberto Michilli è nato a Campli nel 1949. I suoi libri più recenti sono la trilogia su Lermontov: Quaranta poesie; Il prigioniero. La vita il tempo e le opere di Michail Lermontov; Dalla fiamma e dalla luce. La vita attraverso le lettere; una nuova traduzione della Leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere di Flaubert; i romanzi Atlante con figure (prefazione di Tiziano Scarpa); L’attesa della felicità; Sentimentàl.

 

Anna Brandiferro

 

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