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“Non siamo noi che abbiamo fame di letteratura. È La letteratura ha fame di noi. Si nutre di tutto, avidamente: di quello che abbiamo vissuto, di quello che vorremmo vivere… di quello che ci manca…dei sogni, della realtà…”.
Con queste parole inizia l’incontro, alla Torre di Cerrano, con Stefano Redaelli e il suo romanzo “Ombra mai più” (Neo edizioni).

Dopo “Beati gli inquieti” ha pubblicato “Ombra mai più”. Che significato ha l’ombra?


Ombra ha almeno due significati nel romanzo. C’è l’ombra del platano in copertina, un bellissimo albero rosso, sotto il quale è cresciuto il protagonista e rappresenta per lui la protezione paterna, l’ombra come protezione, l’ombra che tutti cerchiamo: qualcuno che ci protegga.  L’ombra però è anche quella della malattia, il protagonista è un ex paziente psichiatrico. Nel romanzo si mettono in continuo dialogo questi due significati dell’ombra: ombra come protezione, come rifugio e l’ombra come malattia. L’ombra è qualcosa che va ritrovata o qualcosa che va persa, non è mai qualcosa di completamente positivo o di negativo. Il rapporto con l’ombra determina l’identità personaggio del romanzo.

Anche in questo romanzo come in “Beati gli inquieti” si parla di follia. Che cosa trova il lettore di nuovo in queste pagine?

Credo che trovi il racconto della follia fuori dai luoghi di cura. A 44 anni dalla legge Basaglia la follia continua a essere vista in un topos letterario che è quello del manicomio come luogo di cure che in realtà erano torture. Oggi sono luoghi in cui si offre assistenza e cure, ma sono sempre luoghi di cui non si sa niente, separati dalla società. La follia è rimasta nascosta.  La mia inquietudine scrivendo questi romanzi mi spingeva da una parte ad andare a vedere i luoghi di cura come sono dentro e come sono cambiati, dall’altra vedere chi torna a casa.  Nel libro scrivo che difficile non è guarire ma tornare , “Ombra mai più” offre di nuovo il rapporto di prima e dopo la guarigione e fa riflettere come siamo cambiati dopo la legge Basaglia e se siamo capaci di pensare alla follia come qualcosa che può avere a che fare semplicemente con la nostra natura umana

Lei ha scritto “C’è una fragilità che accomuna tutti, matti e sani, buoni e cattivi, che parla una lingua misteriosa”. Che significa?


La fragilità è uno dei temi fondamentali del romanzo, la follia di cui parlo in “Beati gli inquieti” e in “Ombra mai più” in realtà è una metafora, come dice il grande psichiatra Eugenio Borgna, la malattia mentale è una metafora della fragilità e sensibilità dell’uomo. Nella società spesso viene stigmatizzata come se non avessimo il diritto alla fragilità, alla malattia, alla sospensione, alla frattura. Quindi parlando di follia nel mio romanzo voglio rivalutare non tanto la resilienza ma la fragilità, come una caratteristica profondamente umana che ci consente di essere uomini, perché la fragilità altrui chiama in aiuto e cura chi è vicino e questo ci determina come esseri umani, a prenderci cura gli uni degli altri.


Perché ha scelto di parlare della follia?


Perché ho frequentato dei pazienti di una struttura psichiatrica per le mie ricerche, che sono poi diventati degli amici e sono entrato in questo mondo del disagio mentale di cui sappiamo poco.  Questo incontro con la follia è stato una specie di folgorazione , mi ha fatto scoprire tante cose nelle mie ricerche di fisica e letteratura.
Ho sempre cercato di tenere insieme il mondo dell’esattezza e delle verità empiriche, con il mondo della soggettività dell’incertezza e della fragilità che è tipico dell’essere umano. La follia è il collante tra due cose che normalmente non starebbero insieme, è sinonimo di ciò che non è spiegabile con un’equazione.

Professore, come possiamo motivare i ragazzi alla lettura?

Il rapporto con i libri dovrebbe essere un rapporto motivato, non solo e non tanto per imparare ma per fare un’esperienza. Bisogna restituire alla letteratura quella sua natura di esperienza artistica che è un’esperienza estetica, come quando andiamo al teatro o a un concerto dove facciamo un’esperienza che ci coinvolge e ci fa vibrare, qualcosa che ci smuove e muove .  La nostra formazione scolastica è stata troppo legata al libro come oggetto che trasmette sapere ma non trasmette emozioni, se riusciamo a restituire alle lettura questa dimensione rimettendo in moto le emozioni, i ragazzi non smetteranno di leggere. Leggeranno molto più di noi!

Lei tra pochi giorni tornerà a Varsavia, ai confini con l’Ucraina. Che testimonianza può darci dell’accoglienza ai profughi?

La Polonia è nota per la solidarietà, “Solidarność” il nome dei sindacati che hanno dato l’avvio alla rivoluzione, a tutto il cambiamento politico ed economico che c’è stato in Polonia. La parola “solidarietà” rimane una parola identitaria per il popolo polacco che in questa situazione ha dimostrato, nei confronti dei profughi dell’Ucraina, un’accoglienza totale non solo di chi offre un tetto, ma cerca un lavoro e offre assistenza sanitaria. I vicini dell’Ucraina sono stati trattati come familiari, questo l’ho visto e ho partecipato a questa solidarietà.  Mi preme parlarne perché quando si parla della Polonia la si associa spesso a delle considerazioni geopolitiche culturali invece non è così, è un paese di grande cultura e di grande accoglienza.

Stefano Redaelli è professore di Letteratura Italiana presso la Facoltà di “Artes Liberales” dell’Università di Varsavia. Addottorato in Fisica e Letteratura, s’interessa dei rapporti tra scienza, follia, spiritualità e letteratura. È autore delle monografie Nel varco tra le due culture. Letteratura e scienza in Italia (Bulzoni, 2016), Le due culture. Due approcci oltre la dicotomia (con Klaus Colanero, Aracne, 2016), Circoscrivere la follia: Mario Tobino, Alda Merini, Carmelo Samonà (Sublupa, 2013) e di numerosi articoli scientifici. Ha pubblicato la raccolta di racconti Spirabole (Città Nuova, 2008) e il romanzo Chilometrotrenta (San Paolo, 2011).
Il romanzo Beati gli inquieti è stato secondo classificato al “Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza 2019″.

ANNA BRANDIFERRO