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MikillNegli anni, abbiamo più volte ospitato, sulle nostre pagine, Roberto Michilli, l’autore di racconti, romanzi e poesie, scomparso pochi giorni fa, e del quale oggi alle 15,30 in Duomo saranno celebrati i funerali. 
Per certastampa, l’aveva intervistato Anna Brandiferro, e le abbiamo chiesto di riunire quelle sue interviste in una nuova, ultima chiacchierata, che potesse dare ai pochissimi che non lo conoscevano, e ai tantissimi che lo ricorderanno,  il segno della sua grandezza.

 

Michilli, Tiziano Scarpa, che ha curato la prefazione del tuo libro "Atlante con figure",  ha scritto “ogni oggetto che Michilli recupera nella memoria... è al tempostess struggente e implacabile, perché è un lenimento e una ferita; è una visione dolce e un bagliore lancinante; è una commozione e una disperazione...” 

 

Tiziano ha scritto cose estremamente lusinghiere su quel mio lavoro, ma sono considerazioni di un critico benevolo che lo guarda dall’esterno. Per quanto mi riguarda, in Atlante ho raccolto avvenimenti ed emozioni da essi suscitate che porto scritti nella carne. Molto più di semplici ricordi, pertanto. Marcel Proust ha scritto che tutti potremmo essere grandi scrittori se solo avessimo la capacità di ripiegarci su noi stessi per sforzarci di ritrovare sopra la nostra anima i segni che ci ha lasciato la vita, l’infanzia soprattutto. È un’operazione difficile e dolorosa, lo posso testimoniare. Ho dovuto aspettare anni prima di trovare il coraggio e la forza per affrontare e descrivere alcune situazioni che anche a distanza di decenni mi emozionavano e  mi   commuovevano.E  mi commuovo e mi emoziono ancora   adesso   rileggendoli,   perché   il   libro   racconta   un   mondo   ormai scomparso, e negli ultimi anni se ne sono andati alcuni dei pochi preziosi amici di quegli anni che insieme a me ancora lo ricordano.  Un altro lettore di eccezione, il filosofo Fabio Brotto, che   mi segue fin dai tempi di Desideri, il mio romanzo d’esordio, ha colto questo aspetto del mio lavoro, forse per consonanza anagrafica, visto che siamo coetanei: “Michilli è spinto a scrivere dei suoi anni  di  bambino  e  ragazzo  da  un insopprimibile  bisogno  di  salvare,  nell’unico modo possibile, un mondo...quel mondo perduto rimane nella memoria di chi lo ha vissuto, vive ancora una sua vita crepuscolare nella sua memoria, e come realtà vivente sparirà con lui. e qua e là in atlante con figure Michilli ci fa capire che, insieme a quel mondo, è tramontata anche la sua felicità”.

 

Bisogna scrivere di cose che ci piacciono  altrimenti non siamo in grado di trasmettere emozioni”. Quindi, la pensi sempre così?

 

Certo. Quando ho iniziato a scrivere, una trentina di anni fa, mi sono trovato davanti   due   problemi   che   chiunque   abbia   avuto   l’infelice   idea   di   dedicarsi     questa attività ha dovuto affrontare:  cosa scrivere e come. In altre parole dovevo costruirmi un mondo da raccontare, uno stile per farlo e una mia idea di letteratura. Per la mia idea di letteratura furono decisive le parole di Giuseppe Pontiggia, scritte nelle sue lettere, dette a voce   nei   nostri   incontri     lette   nelle   sue   opere     interviste.   Secondo   Pontiggia,   uno scrittore deve seguire la penna dopo averla indirizzata verso i sentimenti e gli interessi che per lui sono importanti e lo coinvolgono profondamente. Il risultato sarà stimolante non solo per gli altri, che ci ascoltano sempre con attenzione quando raccontiamo loro con sincerità e onestà ciò che sentiamo, i nostri convincimenti profondi, le nostre paure e i nostri desideri, ma anche per chi scrive, perché scoprirà cose che non sapeva di sapere su   di   sé     sul   mondo.   Perciò   niente   scalette   dettagliate.   Scrivere   per   Pontiggia   non significava sceneggiare un’idea, ma compiere un viaggio di conoscenza alla ricerca di una rivelazione. L’autore quindi deve essere il primo lettore di se stesso. Questa lezione per me è stata decisiva, perché mi ha risolto una volta per tutte il problema di cosa scrivere. È una scelta che,  a mio avviso, crea  un discrimine profondo tra  chi  vuole scrivere con ambizioni espressive e letterarie e chi invece si chiede: di che cosa mi conviene scrivere per essere pubblicato e venduto?   Un’altra lezione che ho imparato da lui è che scrivere con ambizioni letterarie richiede coraggio, molto coraggio. Tutto quello necessario per vincere le proprie paure, le proprie   inibizioni,   l’attrazione   che   esercita   su   di   noi   il   fallimento.   Diceva   che   siamo bravissimi a scavarci la fossa con le nostre stesse mani e a rinchiuderci in pregiudizi e gabbie da cui poi non sappiamo uscire. Scrivere, allora, è anche la capacità di liberarsi dai blocchi mentali, di attivare flussi di energia, di avere fede in se stessi e soprattutto nel lavoro che si sta facendo. E ancora, ma non certo per ultimo, la mia naturale propensione a una scrittura chiara e leggibile è stata corroborata dal suo alto magistero e dal suo esempio. Pontiggia ha sempre usato un linguaggio chiaro e preciso, nella convinzione, come scrive nel saggio su Daumal all’inizio del   Giardino delle Esperidi , che il linguaggio oscuro «finisce per sottrarre all’esistenza proprio la sua oscurità, come il segno meno, moltiplicato per un altro meno, dà il più di una conferma. Solo il discorso chiaro può essere di una complessità inesauribile». E quanto alla leggibilità, il testo per lui era una stratificazione di significati, di cui quello superficiale deve essere comunque, e aggiungo io da chiunque, intelligibile. Come Pontiggia ribadisce nel citato saggio su Daumal, l’uso di   un   linguaggio  corrente   per   esprimere   verità   lontane   rispetto   ai   luoghi   comuni   è   il compito principale della narrativa contemporanea.  Scrivere, mi ripeteva spesso, è fare appello alle proprie risorse etiche, oltre che fantastiche,   in   uno   sforzo   di   oggettivazione   continuo,   in   un   confronto   anche   duro   frustrante, ma necessario, con la risposta di chi legge. Risorse etiche nel senso che la voce di uno scrittore, cioè quello che lui scrive sulla pagina, deve essere filtrata e convalidata da quei criteri di verità che hanno dimora nella sua esperienza di uomo. Quindi bisogna essere   responsabili   del   linguaggio   che   si   adopera,   riconoscersi   in   quel   linguaggio. Scrivere in modo responsabile significa sforzarsi di non essere acquiescenti e passivi ed evitare che, per imitazione o per suggestione dei modelli, si finisca per usare parole che non   corrispondono     quello   che   noi   vogliamo   dire,   alla   nostra   esperienza,   al   nostro mondo. È necessaria pertanto un’attenzione scrupolosa a quello che si fa, e una continua riflessione   su   quello   che   s’è   scritto.   Si   scrive   per   scoprire   un   linguaggio   nel   quale riconoscersi;   si   scopre   di   avere   un   mondo   da   esprimere,     lo   si   scopre   attraverso   la costruzione del proprio linguaggio. In ultima analisi è una questione di sincerità.  Si tratta di non falsificare e di costruire le proprie storie con parole che siano sì chiare ed efficaci, ma anche e soprattutto il calco del proprio universo interiore. Questa sincerità dell’autore verso se stesso gli permette di riconoscersi al meglio in ciò che scrive e diventa sincerità nei confronti del lettore. Quest’ansia di verità ha un prezzo altissimo, ma probabilmente è qui che corre il discrimine tra letteratura e ciò che letteratura non è. Quando si insegue la verità di se stessi si avanza su un crinale sottile e insidioso dove ogni struttura interiore diventa fragile e vulnerabile, esposta a un rimestamento che se da un lato tende a una trasparenza, al contempo ci pone in contatto con le nostre oscurità e i nostri misteri. Quando invece si congegna una trama che vuole solo allettare, divertire o distrarre il lettore, quando il lettore è considerato non un interlocutore costitutivo e senziente, ma solo   un   consumatore,   questa   tensione   etica   –   sia   detto   fuor   da   ogni   moralismo   –   è semplicemente     forse   colpevolmente   elusa.   Conoscere   se   stessi   è   una   chimera, riconoscersi nelle parole che ci appartengono è forse una conquista possibile, perché è in quelle parole che vive o sopravvive la nostra verità. Avevo già quarant’anni quando ho cominciato a scrivere. Se da un lato questo mi   ha   svantaggiato   sotto   vari   aspetti,   dall’altro   mi   ha   reso   semplice   individuare   sentimenti e gli interessi che per me erano importanti e mi coinvolgevano profondamente, dato che avevo già vissuto diverse esperienze e mi ero ormai formato una mia idea del mondo e della vita. Fin dall’inizio perciò ho indirizzato la mia indagine verso il desiderio. Inteso in senso lato, non ristretto alla sola connotazione sessuale. Per essere più preciso, verso     desideri   di   un   essere   umano   che   vive   all’interno   di   una   società   avanzata occidentale,   è   mediamente   acculturato     benestante,   ha   risolto     problemi   essenziali dell’esistenza, non ha tragedie in famiglia, ed è in buona salute. L’essere umano preso al meglio delle proprie possibilità, insomma. Mi rendo conto che la mia è una posizione eccentrica rispetto alla imperante “narrativa del dolore”, ma a mio avviso il dolore è una facile scorciatoia, e figli abbandonati e ritrovati oppure maltrattati o abusati, famiglie problematiche, malattie e sventure di ogni tipo mi sembrano molto meno interessanti, narrativamente   parlando,   rispetto     un  uomo   o  una   donna   che   si   pongono  davanti   al mondo nelle migliori condizioni possibili, hanno tutto a portata di mano e si mostrano quali realmente sono, non hanno più né scuse né alibi. E se in questo momento vedono davanti a sé il vuoto, è perché questo vuoto è anche dentro di loro, e credo che questo sia il   vero  orrore,   la   vera   tragedia   dei   nostri   tempi.   È  la   qualità   della   nostra   vita   che   si rispecchia   nei   nostri   desideri:   il   benessere   non   ci   cambia   in   meglio,   anzi,       nostri desideri ce lo dimostrano. 

Roberto Michilli nasce come poeta poi passa ai racconti e infine ai romanzi, ma... scrivi sempre poesie?

 

 Ci tengo a precisare che non sono un poeta, ma solo un narratore che in un certo periodo della sua vita ha scritto dei versi e poi, rinsavito, ha smesso. Questo è un tempo di povertà. Ci sono alcuni milioni di poeti o sedicenti tali, in circolazione, però la stragrande maggior parte di loro ha risposto a chiamate che nessuno si è sognato di fare. Nell’insieme creano un rumore di fondo che copre anche le poche voci originali. Meglio tenersi alla larga dal mucchio selvaggio.  

ANNA BRANDIFERRO