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di ANTONIO D'AMORE E’ finita. La più strana, tra tutte le campagne elettorali che io abbia avuto la ventura di commentare, è finita. Alla mezzanotte di ieri, come pretendono gli anacronismi cavillosi di una legge che norma un mondo che non c’è più, il silenzio elettorale è calato sulle Politiche del 2018. E’ una mera finzione, un gioco al quale facciamo tutti finta di partecipare, illudendoci di non sapere che, in realtà, è proprio adesso che comincia il “rumore”. Niente nuove affissioni sui muri, bene, niente spot in tivù, molto bene, niente propaganda stradale..benissimo… ma intanto la rete esplode di messaggi whatsapp, videomessaggi facebook, cinguettii, storie e boomerang (se non sapete di cosa stia scrivendo, chiedete ad un nipote di scaricarvi Instagram), perché la rete non rispetta silenzi né par condicio, e i cavilli non navigano sulle onde del web. In fondo, è una metafora: il Paese delle regole si illude di seguire una norma condivisa, mentre il Paese reale condivide il disinteresse per le norme. Per questo, quella che sta per chiudersi con l’apertura del “L’urna park” di domani è stata, secondo me, la più strana tra le campagne elettorali che io ricordi. Vista da sinistra, soprattutto. Dei cinque stelle non parlo, perché mi appaiono paradossali certe loro logiche. Non le capisco, e se non capisco non commento. E voglio scrivere della Sinistra, perché ho già scritto, su queste pagine, quale sia il Centrodestra teramano che si affaccia ai seggi, come sia scomposto e sconvolto. Quanto Forza Italia esca malconcia dalla mancata candidatura di Paolo Gatti e Gianni Chiodi, lo si è intuito in tutta la campagna elettorale, nei pochi momenti pubblici, nelle imbarazzate posture della Pelino, nei tentativi poco convinti e meno convincenti di Pagano di trasmettere una serenità che non c’è. Brucchi si è speso, Gatti ha pennellato presenze di circostanza, se non fosse stato per la Ettorre, che ci ha messo faccia e impegno, giuro che avrei avuto difficoltà nel ricordare che Forza Italia è tra le caselle della scheda. Alla Lega concedo il giudizio sospeso che si deve ai debutti, ma confesso che un po’ mi ha infastidito l’attacco facile alla giovane Lucrezia Rasicci, colpita sull’età sul cognome, sull’esperienza. Siamo il Paese del “largo ai giovani”, ma solo se sono figli o al massimo nipoti nostri. E poi, se penso che ad un criterio di età maggiore, nome sconosciuto ed esperienza di vita vissuta ben diversa della Rasicci, corrisponda Antonio Razzi, mi viene da pensare che l’Abruzzo possa concedersi anche di “provare” la Rasicci. Di Giandonato Morra, di Fdi, quello che penso è noto, spero che vada in Parlamento e che, soprattutto, il Parlamento sia capace di concedergli lo spazio che merita. E mi fermo, perché avevo scritto, qualche riga fa, di voler guardare questa campagna da sinistra. Campagna difficile, come lo sono sempre quelle che affronti da partito al Governo, in un Paese che vota - quasi sempre - contro a prescindere, solo per illudersi di aver partecipato al “cambiamento”, ma purché si voti veloce, perché domenica c’è il pranzo con le paste, la pennica indotta da domenica in e la partita su Sky. Eppure, questa campagna elettorale complicata, qualche lampo di novità a sinistra l’ha offerto. E non considero certo “novità” l’aver visto una parte consistente del Centrodestra teramano, quella tancrediana, inalberare insegne petalose e passare dall’altra parte dell’arco parlamentare, perché a differenza dei commentatori sempre pronti al pubblico sdegno, i miei 53 quasi 54 anni mi consentono memoria del popolo democristiano, dei cognomi, delle facce e delle impostazioni culturali e ideologiche. Per non scandalizzarsi dei “salti della quaglia”, basta scrivere gli schieramenti con le logiche matematiche dell’elisione del comune denominatore. Sembra complicato, ma ve lo facilito con un esempio: SINISTRA - CENTRO - DESTRA. E’ intuitivo quanto tutto quelli che stanno al Centro (i moderati, gli ex democristiani, certe falangi socialiste annacquate, una certa destra sfiorita), siano equidistanti dagli estremi, tanto da poterne appoggiare l’uno o l’altro, con grande facilità. Né, certo, è nuovo il pastone delle listarelle in cerca di quorum, tra i loghi delle quali sembra di intuire il bagliore tenue delle lampadine da quindici candele, che illuminano a stento le case di qualche anziano ormai destinato alla quiescenza politica, che cerca di innaffiare inadeguate nostalgie. No, il nuovo della sinistra teramana, è Sandro Mariani. La sua era, tra tutte, la campagna elettorale più difficile. In assoluto. Provate ad immaginarvela: candidato al maggioritario, in un collegio che i "signor sotutto” della politica consideravano un giorno blindato al Centodestra e un altro ai pentastellati, nel partito di uno dei politici meno amati della storia repubblicana e con l’ingombrante presenza sul territorio di un candidato, che ha dichiarato di voler lasciare la poltrona da Presidente della Regione per una poltrona da Ministro. Tra “saputi”, Renzi e D’Alfonso, Mariani aveva due sole strade possibili, una comoda e l’altra spaventosa. Ha scelto la seconda. Avrebbe potuto giocarsela come candidatura di servizio, senza faticare più di tanto e rivendicando poi, un domani, qualcosa di più di quella nomina da capogruppo del Pd all’Emiciclo. E invece, no. Ha scelto, parole sue, “il mortal kombat”, lo scontro all’arma bianca, puntando su una campagna elettorale tanto antica da risultare modernissima. Il casa per casa. Quasi fosse un candidato alla Provincia, più che al Parlamento, Mariani ha battuto il territorio a tappeto. Decine, centinaia di incontri, e poi comunicazione totale, su tutti i mezzi di informazione e di diffusione, dalla radio al web, dalla carta stampata ai manifesti, dalla televisione agli youtuber. Nessun fronzolo, solo l’essenziale della verità. Ho avuto modo di partecipare ad un paio dei suoi incontri, quale moderatore, e come faccio sempre ho cercato di “leggere” la gente presente. C’erano, ovviamente, gli iscritti, ma c’era anche tanta gente che so essere di diversissima impostazione politica, richiamata da un modo di fare impostato non sulle logiche dell’eletto distante, ma su quelle dell’eletto presente. Ho sentito la gente, la sua gente declinare tutti i verbi alla seconda singolare, perché ad uno che consideri come te fai fatica a dare del lei. Senza cravatta, senza finzioni photoshoppegne, senza vergogna della cadenza abruzzese, senza paura di poter far la conta dell’impegno, Mariani ha riportato la politica locale indietro di qualche anno, tornando a quando c’era ancora qualcuno che ascoltava i cittadini. E, magari, risolveva i problemi. Mi piacerebbe vederlo in Parlamento.