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Con il referendum costituzionale tenutosi la scorsa estate, Vladimir Putin, l’uomo più pericoloso al mondo per gli equilibri politici internazionali, ha tramutato sostanzialmente la Russia in una proprietà privata e se l’è, di fatto, intestata.
Il quesito posto al povero popolo russo dal suo Presidente e, ora, anche Padrone, era il seguente, testuale: “Siete d’accordo con le modifiche proposte dal Presidente alla Costituzione della Federazione Russa?”
Il 78% degli aventi diritto al voto al quesito referendario ha risposto “Sì” – invogliati anche dalla promessa consegna di un buono spesa all’uscita dai seggi – e così Putin si è garantito di rimanere al potere fino al 2036, perché ora gli è consentito di ricandidarsi come Presidente fino all’età di 84 anni – oggi ne ha 68 – allontanando sempre più la Russia dalla democrazia reale.
Poco tempo fa era stata diffusa la notizia che Vladimir Putin fosse affetto da Parkinson e che stesse per rassegnare le sue dimissioni, cosa che avrebbe fatto crollare in un attimo tutti i suoi farraginosi piani di potere – farraginosi perché le azioni antidemocratiche messe in atto dal Presidente russo sono compiute indisturbate alla luce del sole senza bisogno di chissà quali sotterfugi essendo lui stesso il “controllore” di tutte le istituzioni della Federazione Russa –, ma la notizia è stata prontamente smentita dal Cremlino.
Putin quindi è saldamente al potere da più di 20 anni grazie all’azzeramento progressivo di tutti quei diritti che uno stato veramente democratico garantisce al cittadino; e così zittisce pure qualsiasi possibile opposizione al suo regime, ma è certo che la Russia resta una gigantesca caldaia di malessere politico e sociale, senza alcuno sfogo democratico, che potrebbe esplodere da un momento all’altro: un rischio per gli equilibri internazionali senza precedenti, tenuto conto anche del potenziale bellico disponibile in Russia.
Ma come si è arrivati a tutto questo?
Il 10 luglio 1991, per gli effetti della Perestrojka, vale a dire le riforme politiche e sociali promosse da Michail Gorbačëv che portarono alla dissoluzione dell’URSS, al superamento del realsocialismo e alle prime elezioni democratiche in Russia, Borís Él’cin (1931 – 2007) fu eletto primo Presidente della neonata Federazione Russa, che restò in carica per due mandati e fino al 31 dicembre 1999, quando si dimise causa il deterioramento del proprio stato di salute indicando come suo successore proprio Vladimir Putin.
Putin così, a soli 47 anni, ereditò da Él’cin una Russia che la giovanissima democrazia scoprì in grave crisi economica e sociale e già accesa da vari focolai di tensione negli stati tenuti prima insieme dall’ex Soviet, come in Cecenia: la Russia è il Paese con il territorio più esteso sulla Terra occupando ben due continenti.
Putin dopo il primo anno di Presidenza appariva ancora persuaso e rilassato della possibilità democratica nel proprio Paese, come predicato da Borís Él’cin, suo mentore e difensore della libertà di stampa dopo decenni di censura comunista. Ma Vladimir Putin trovava ancor più motivo in questa convinta svolta democratica perché dalla sua aveva, al tempo, la giovane età ed energie che il suo maestro aveva inevitabilmente perduto. Ma dal suo settimo anno di presidenza, la democrazia incomincia a stargli un po’ troppo stretta e iniziò a preoccuparsi su come fare a ritagliarsela su misura per garantirsi la guida del Paese vita natural durante: è da questo momento che, evidentemente, ha iniziato a germinare in lui la riforma costituzionale con cui si è autointestato la Russia praticamente fino alla fine dei suoi giorni, dando finalmente corpo alla sua idea di potere assoluto sulle sorti del povero popolo russo, di vita e di morte anche.
Vitaly Mansky, documentarista ucraino prima vicino a Vladimir Putin come inviato particolare della televisione nazionale russa a servizio del Presidente, in questo suo film, recuperato da quella esperienza, segue da vicino gli avvenimenti che porteranno al potere l’ex funzionario del KGB. E inizia raccontandoci di come Putin si sia liberato nel tempo anche dei suoi collaboratori più stretti, alcuni di questi anche suoi amici. E sono persone con cui aveva immaginato una Russia finalmente democratica e moderna. Mansky ci dice che questi, non appena hanno provato ad alzare la testa per tornare a indicare la via della democrazia al loro amico Presidente, la stessa che lo aveva portato alla guida del povero popolo russo nel 1999, sono stati subito esclusi dal proprio entourage: la loro colpa, il loro fallo di espulsione, è stato sempre quello di raccomandare a Putin di non accentrare tutti i poteri costituzionali della Federazione Russa sulla sua persona perché questo avrebbe compromesso il processo di democratizzazione del Paese. Collaboratori che oggi, se sopravvissuti, possiamo trovare tutti nella disarmata opposizione parlamentare russa oppure sono stati esautorati dalla vita politica fino a favorire la loro scomparsa dalla scena pubblica: in qualche caso sono stati eliminati anche fisicamente perché vittime di misteriose aggressioni o avvelenamenti rimasti sempre senza colpevoli.
Ma Vladimir Putin sembrerebbe concedere sempre una seconda occasione a questi “controrivoluzionari” nel caso si convincessero di tornare nei ranghi da lui stabili, come avvenuto con Dmitrij Medvedev, dal 16 gennaio 2020 Vicepresidente del Consiglio di sicurezza – di cui Presidente è sempre Vladimir Putin –: questa è una carica di nuovissima istituzione. Medvedev fu eletto terzo Presidente della Federazione Russa nel 2008 in una sorta di “sostituzione fiduciaria” per volere di Putin, che con lui scambiò momentaneamente la poltrona di Primo Ministro fino al 2012: Putin fu costretto a questo escamotage affidando nominalmente la presidenza al suo delfino perché la Costituzione della Federazione Russa allora non permetteva di assumere più di due incarichi presidenziali consecutivi, limite oggi appunto superato dalla suddetta riforma. Ma Medvedev a fine mandato, cioè nel 2012, ebbe la inaspettata idea di presentarsi ugualmente alla presidenziali con un proprio partito, dove sarebbe tornato a candidarsi lo stesso Vladimir Putin, cosa che creò non poco imbarazzo al regime che andava consolidandosi. Idea poi abortita dallo stesso Medvedev che si tolse di mezzo da solo ma, di fatto, quello che fu definito “L’arrocco” del 2008, vale a dire lo scambio di poltrone transitorio tra i due, non è più ripetibile perché quel passo falso del 2012 ha minato per sempre la fiducia di Putin nei confronti del suo delfino, che con il tempo ha perso anche rilevanza nel suo entourage: pure l’attuale carica ricoperta da Medvedev non è certo di primo livello e appare solo nominale.
Vladimir Putin appare quindi sempre più come un uomo solo al comando che non si fida più neanche della sua stessa ombra e sospetta di tutti, nel pieno del proprio delirio dittatoriale. Del resto il repulisti in stile Putin non ha risparmiato neanche l’ex moglie, Ljudmila Aleksandrovna con la quale ha due figlie, uscita anche lei dalla scena politica russa dopo il divorzio consensuale ufficializzato il 16 giugno 2013.
Vladimir Putin considera il crollo della Unione Sovietica, che pure l’ha portato al potere, posizione per lui altrimenti molto improbabile, la più grande tragedia geopolitica del XX secolo, che oggi tenta in qualche modo di riprodurre sotto forma di regime laico, che invece di un partito è rappresentato da un solo uomo, con il beneplacito della Chiesa russa ortodossa, che dal referendum costituzionale ha incassato il riconoscimento del matrimonio solo come unione tra uomo e donna, considerando fuori legge tutte le altre possibilità: l’omosessualità è considerata oggi un reato in Russia punito con una sanzione pecuniaria che può arrivare fino ai 15 mila euro, in un Paese dove lo stipendio medio è di 417 euro; ed è vietato pure parlarne pubblicamente. Ma questo è un retaggio antico che non nasce certo con la Russia di Putin: con Stalin al potere erano previsti ben 5 anni di reclusione per il reato di omosessualità, norma abolita solo 1993 proprio durante la presidenza di Borís Él’cin. L’omofobia è così radicata nel povero popolo russo che ben due terzi dei cittadini si è detto favorevole alla legge anti-gay del loro Presidente.
Ma nulla è eterno e la Russia appare sempre di più come una gigantesca caldaia di malessere politico e sociale, senza alcuno sfogo democratico, che potrebbe esplodere da un momento all’altro, malgrado il regime istaurato in più di 20 anni da Vladimir Putin.
 
MASSIMO RIDOLFI