Il grande sconfitto di queste elezioni americane è il sondaggio. Dal 21 luglio i sondaggisti americani hanno raccontato di una Kamala Harris che giorno dopo giorno recuperava lo svantaggio su Donald Trump lasciatole in eredità da Joe Biden (circa 5 punti percentuali), fino a dirci di averlo raggiunto e, addirittura, superato. Lo stesso Trump ha accusato il colpo del passaggio di testimone tra Biden e la Harris, tanto da rifiutare un secondo confronto televisivo. Trump che di colpo di è trovato a dover recitare lui la parte del vecchio: anche la sua voce pareva di colpo invecchiata, caduta di tono, incerta, fino al rimbambimento, fino a mimare un pompino su un malcapitato microfono, a Milwaukee, Wisconsin – la conservatrice città di Happy Days, devota a zio Ike (Dwight D. Eisenhower, repubblicano e 34° presidente, per due mandati, dal 1953 al 1961, e ideatore del D-Day, lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944, che sbaragliò sul fronte occidentale il fedele esercito di Adolf Hitler), dove le mamme sono tutte premurose come Marion Cunningham, e i figli sono tutti bravi come Richie, ma di Fonzie ce n’è uno solo. Insomma, d’un colpo l’America pareva essersi svegliata. E i sondaggisti rendevano conto di questo risveglio ora per ora.
Prima dell’apertura delle urne i sondaggi davano un testa a testa con possibilità di vittoria tra i due candidati al 50%, ma con una tendenza finale che avrebbe portato alla Casa Bianca, magari non subito ma dopo settimane di verifiche delle varie commissioni elettorali (un po’ come successe tra George W. Bush e Al Gore nel 2000, incagliati tra le macchine obliteratrici della Florida, che solo la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America riuscì a liberare – a deliberare il nuovo Presidente), la Harris. Insomma, tutti i sondaggi alla fine vedevano il candidato democratico in leggero vantaggio.
Nate Silver, il sondaggista più famoso d’America, un quarantaseienne di East Leasing, Michigan, una cittadina grande più o meno come Teramo, che si è fatto le ossa sui numeri compilando statistiche sul baseball, da bravo nerd, ha passato le ultime notti a fare decine di migliaia di simulazioni, 80.000, dove in 40.012 ha vinto la Harris e in 39.718 ha vinto Trump. Mentre nei restanti 270 esperimenti (ironia della sorte, 270 è anche il numero minimo di grandi elettori necessari per vincere le elezioni) il risultato è stato di 269 pari.
Molti potrebbero obbiettare che, però, considerato il particolare sistema elettorale americano, non sempre vince chi prende più voti popolari; non sempre ma quasi sempre vince chi prende più voti popolari: dal 1789, anno dell’elezione di George Washington, il primo presidente eletto, a oggi, solo 5 volte è accaduto che la maggioranza dei voti popolari non portassero alla Casa Bianca il candidato presidente (4 repubblicani e 1 democratico), e siamo giunti alla 47a elezione. Ma per trovare un paragone a quello che è appena successo nella politica americana, bisogna tornare al 1892, perché prima di ora solo il democratico Grover Cleveland riuscì a tornare alla Casa Bianca dopo aver perso le elezioni del 1888 da presidente uscente contro il repubblicano Benjamin Harrison: ed è questo pure uno dei 5 casi dove i voti popolari non decisero l’elezione: Harrison arrivò alla Casa Bianca con 5.447.129 voti popolari quando Cleveland ne prese invece 5.537.857.
Il buon Silver, però, prima di oggi, vantava dei risultati di tutto rispetto, tanto da portarlo a essere il Re dei sondaggisti americani. Ciò avvenne nell’epoca Obama. Nelle elezioni del 2008, BarackObama si confrontava con John McCain, Silver azzeccò i risultati di 49 stati su 50; mentre in quelle del 2012 (in questa occasione ad affrontare il nobelizzatissimo – per dirla con Edoardo Sanguineti, Epistolina per N.B. - 7 maggio 2010, la sua ultima poesia – c’era MittRomney: è con lui che iniziò l’emersione del Tea Party, vale a dire dell’ala più estrema dei conservatori americani) fece punteggio pieno, 50 stati su 50.
Qui invece ci troviamo di fronte a una totalmente inattesa perché straripante vittoria di Trump, pari a quella che quattro anni fa portò alla Casa Bianca Biden, che, in più, vede i repubblicani riprendere la maggioranza del Senato: molti credono che questo cambierà la politica internazionale degli Stati Uniti, quando invece non cambierà nulla, come sempre. Continueranno le guerre perché ogni conflitto scaturisce sempre da una precisa volontà di guerra; la precisa volontà di guerra di Vladimir Putin conta più di ogni discorso ipocrita di pace; le precise volontà di guerra di Hamas, di Hezbollah, dell’Iran e dell’Islamismo, nemici tutti dell’Occidente, contano più di ogni discorso ipocrita di pace. Quindi il Senato degli Stati Uniti d’America, dentro la Santissima NATO, per difendere i sacri e santi interessi della Nazione e di tutto l’Occidente democratico, continuerà ad armare e sostenere Ucraina e Israele. Trump, tra l’altro, è intimo amico di Bibi, Benjamin Netanyahu; mentre Biden non ha mai avuto buoni rapporti con il primo ministro israeliano, e lo ha considerato sempre un problema la sua esistenza politica in Medi Oriente.
Molti sopravvalutano il potere del Presidente degli Stati Uniti d’America, chiunque sia, quando invece a governare è il Senato e a decidere che guerre sostenere è il Pentagono, da qui la demenziale battuta del pupazzo ventriloquo nelle mani Putin sulla fedeltà dei generali di Hitler: per questo combinato disposto della più grande e antica democrazia del mondo,Donald Trump, corpo estraneo incistatosi accidentalmente nel Partito Repubblicano (che lo odia più dei democratici), non potrà decidere nulla a proposito di guerra&pace, e sarà il presidente politicamente più debole della Storia grandiosa degli Stati Uniti d’America.
Questa è la vittoria di re Pirro dell’Epiro, capitano per destino in America. Quattro anni sono un soffio. E sarà per sempre. Ma il popolo americano, soprattutto i meno abbienti e gli afroamericani e le minoranze, ha perso una grossa occasione di miglioramento, fosse anche stata solo una speranza.
MASSIMO RIDOLFI