La magistratura si ferma. Oggi, con lo sciopero indetto dall’Associazione Nazionale Magistrati
(ANM), si manifesta il dissenso contro una riforma che rischia di compromettere il funzionamento
della giustizia in Italia. Al centro della protesta, la separazione delle carriere tra magistratura
requirente e giudicante, con l’istituzione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura.
Ma questa riforma è davvero la soluzione ai problemi della giustizia? La creazione di due percorsi
separati garantirà una maggiore imparzialità del giudice o, piuttosto, rischia di snaturare il ruolo del
pubblico ministero, trasformandolo in una figura meramente accusatoria?
Oggi, nel nostro sistema penale garantista, il pubblico ministero non è un semplice avvocato
dell’accusa, ma un organo della giurisdizione con il compito di ricercare la verità, non solo di
costruire un impianto accusatorio. L’articolo 358 c.p.p. impone al PM di acquisire non solo le prove
a carico, ma anche quelle a favore dell’indagato, affinché l’indagine sia orientata alla ricostruzione
completa dei fatti.
Con la separazione delle carriere, il rischio è che il pubblico ministero perda questa funzione e
diventi un soggetto esclusivamente accusatorio, sbilanciando il processo e compromettendo il diritto
di difesa. Inoltre, se il PM dovesse perdere il controllo sulle indagini e delegare in misura eccessiva
alla polizia giudiziaria, si indebolirebbe la garanzia di un’indagine autonoma, con gravi
conseguenze per la giustizia e la tutela dei diritti.
Ma al di là delle teorie, il vero problema della giustizia italiana è un altro: la lentezza e i costi dei
processi. Sempre più cittadini rinunciano a far valere i propri diritti perché i tempi della giustizia
sono inaccettabili. E la separazione delle carriere non incide minimamente su questo nodo cruciale.
E le ragioni con cui la destra giustifica questa riforma? Anche qui, il discorso appare fragile. L’idea
che la separazione garantisca maggiore equilibrio tra accusa e difesa non trova riscontro pratico,
soprattutto perché il vero problema del processo penale italiano non è il ruolo del PM, ma
l’inefficienza strutturale del sistema giudiziario. Più che una riforma basata su un reale studio delle
necessità della giustizia, sembra piuttosto il frutto di una spinta emozionale e di un accordo politico
tra le forze della coalizione di destra, senza una vera analisi delle conseguenze pratiche.
Forse, anziché investire energie in una riforma di dubbia utilità, bisognerebbe concentrarsi su ciò di
cui la giustizia ha davvero bisogno: più risorse, maggiore efficienza, tempi certi e un sistema che
garantisca a tutti l’accesso alla tutela dei propri diritti.
Avv. Manola Di Pasquale, responsabile regionale giustizia PD Abruzzo