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BlondexDiciamolo subito: Marilyn Monroe era più un personaggio che un'attrice, costruito direttamente da Norma Jeane Baker e favorita dagli Studios che ricercavano negli anni '50 proprio la bionda svampita della California, un po' pin-up, leggera, senza velleità intellettuali e da contrapporre alla mora del Midwest, più materna, casalinga, metti Jane Russell. Insomma, a proposito di Marilyn, aveva sicuramente ragione Billy Wilder – che la considerava una pessima attrice ma che riuscì lo stesso, sudate tutte le camice del suo guardaroba, a farla entrare nella Storia del cinema con Quando la moglie è in vacanza, del '55, dove c'è la scena più iconica di Marilyn, quella dove lo spostamento d'aria provocato dal passaggio sotterraneo della metropolitana di New York le alza il vestitino bianco scoprendole completamente le gambe, scena che gli costò il divorzio da Joe DiMaggio (vedi qui la scena: http://bit.ly/3GvhP63), e soprattutto nel 1959 con A qualcuno piace caldo, pellicola considerata dai critici la migliore commedia di tutti i tempi – come aveva sicuramente torto Lee Strasberg, il mitico fondatore e direttore dell'Actors Studio di New York, che però di film non ne ha girato manco uno mentre Wilder ne ha girati una trentina aggiudicandosi sei premi Oscar più uno alla memoria spaziando dal dramma alla commedia: è lui il regista di Viale del tramonto, 1950, giusto per ricordare un altro titolo della sua filmografia: la teoria può essere figliata solo dalla pratica e non è mai il contrario, e di questo i teorici per la teoria, cinefili in primis, è giunto il momento che se ne facciano una santa, santissima ragione.

Ma il successo per Marilyn arriva prima  del suo incontro con Wilder grazie aGli uomini preferiscono le bionde di Howard Hawks, un altro gigante della Storia del cinema, pellicola del 1953 dove la troviamo al fianco della magnifica, statuaria, morissima Jane Russell appunto: ecco, il successo fu talmente grande che le due attrici furono invitate a porre le loro impronte sulla Hollywood Walkof Fame, dove traspare chiaramente tutta la svampitezza della bionda Monroe, che invece di inginocchiarsi sulla struttura posta sulle due forme di cemento fresco, pronte ad essere impresse, ci vorrebbe stare sopra all'impiedi (vedi qui la scena: http://bit.ly/3XhDdBI), questo per dire che Marilyn era così e che darle una veste pseudo revisionista che la vorrebbe dipingere per quello che non era, sarebbe solo un atto di stupidità.

Io la amo da sempre così, anche se l'unico incontro che ho avuto con lei è stato quello con un suo vestitino nero a pois bianchi che una collezionista di memorabilia e modernariato americani degli anni '50 volle mostrarmi sapendo la mia passione per l'attrice californiana. Il vestitino era davvero minuscolo, di bambola proprio, ed era protetto da una cornice nera e da un vetro, e appeso così a un muro come fosse un quadro. Ricordo benissimo quel vestitino. Notai anche il certificato della Sotheby's di Londra che ne autenticava l'originalità. Ma io e la collezionista ci interrogammo soprattutto, davanti al vestitino nero a pois bianchi, sulla minutezza di quella magnifica creatura: convenimmo che non fosse alta più di 1,55, quindi molto meno dei dichiarati 1,66, a proposito di costruzioni.

Ma prima di passare a dire due parole del film di Andrew Dominik, perché più di due non ne merita, non posso non far notare che, a mio parere, nessuno ha saputo descrivere Marilyn meglio di come è riuscito a farlo Pier Paolo Pasolini in memoria della sua prematura morte: "Del mondo antico e del mondo futuro / era rimasta solo la bellezza, e tu, / povera sorellina minore, / quella che corre dietro i fratelli più grandi, / e ride e piange con loro per imitarli, / e si mette addosso le loro sciarpette, / tocca non vista i loro libri, i loro coltellini, // tu sorellina più piccola, / quella bellezza l’avevi addosso umilmente, / e la tua anima di figlia di piccola gente, / non ha mai saputo di averla, / perché altrimenti non sarebbe stata bellezza." (Ascolta qui tutta la poesia: http://bit.ly/3EOGCkd).

Non credo di aver visto mai film più raffazzonato di Blonde, che si sforza di drammatizzare una vita quando è già di per sé drammatico il vivere nella certezza di una indeterminabile finitezza.

Marilyn viveva certamente dei traumi infantili reali, che la corrodevano, che la spingevano dentro improbabili relazioni alla ricerca di un padre e di una famiglia che non aveva mai avuti, ma era perfettamente cosciente di quello che voleva fare della sua vita, cioè Marilyn Monroe e non certo Norma Jeane Baker.

Dominik invece fatica non poco a trovarne il bandolo della matassa di questa vicenda avventurandosi a spiare le relazioni famose della diva: i fratelli Chaplin – che disegna come due pervertiti della peggiore specie –, Joe DiMaggio – che disegna, deformandolo, come un rozzo mangiaspaghettipicchiafemminemanco fosse JakeLaMottaquando invece è stato l'unico che l'abbia mai amata veramente, tanto che Marilyn era da lui che tornava nei momenti più bui, tanto da accollarsi tutte le incombenze pure del suo funerale dove c'era solo lui dietro il feretro dell'attrice –, Arthur Miller – che disegna come un rincoglionito dietro le gonnelle della Blonde, che invece non aveva alcuna stima di Marilyn, sicurissimo di sé, pienamente del ruolo di intellettuale engagé che non si piegò neanche davanti al maccartismo nonostante l’infame spiata del suo amico fraterno Elia Kazan – e, infine, John Fitzgerald Kennedy – relazione della qualeDominik sa raccontarci solo di un improbabile quanto ridicolo fellatio sotto stretta sorveglianza della CIA.

Poi il regista australiano, attraverso una fotografia che oscilla da un brutto bianco e nero, piatto e senza poesia, a un colore pubblicitario per riprodurre didascalicamente gli scatti più noti dell'attrice, cerca una dimensione onirica nel racconto che non gli riesce affatto dandoci una Marilyn in continuata crisi isterica, fino alla morte: la più ridicola di tutte le scene, insieme al deforme DiMaggio che torna a casa per picchiare la moglie, è quella dove vediamo Marilynche torna indietro verso casanella ricerca disperata di un dollaro di mancia da dare al corriere, poco prima di morire, e che poi corre con questa banconota – pare in realtà da 20$ – in primo piano verso il corriere che, però, non trova più, tutto per voler didascalicamente, ancora, goffamente, peggio ancora, descriverne la presunta generosità.

Tutto un delirio di "soli" 166 minuti che, però, tra una incazzatura e l'altra, scorrono ma solo per il fatto di riuscire finalmente a capire dove il regista voglia andare alla fine a parare, e para malissimo.

Certamente il regista coglie un punto fondamentale della biografia di Marilyn – anche se pure qui nella ridicola invenzione di un quadro parlante –, vale a dire l'inesausta ricerca da parte dell'attrice della figura paterna, fatto che dovrebbe fare riflettere in questonuovo mondo di nuovissimi egoistici diritti dove si vorrebbe relegare la genitorialità alla funzione numerica e meramente biologica, intendendo tutto quello che si è saputo e fatto finora come volgare condizionamento culturale: genitore 1, 2 e 3, perché i figli, ci vogliono fare credere, si fanno in tre, scartato il 3, perché il triangolo, alla fine, anche no.

Marilyn era sicuramente più generosa di quei desunti 20$ di mancia e meritava certamente un film migliore: togliete dalle fredde mani dei registi australiani i miti americani.

MASSIMO RIDOLFI