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Etabreve
Ho incontrato Umberto Piersanti il 10 giugno 2022 quando fui invitato dal Centro Studi Francesco Scarabicchi all'inaugurazione dell'anfiteatro Arco dei Angeli intitolato al grande poeta anconetano. In quella occasione ci furono molti omaggi all'opera e alla memoria e, soprattutto, alla persona di Scarabicchi, come quelli del critico Massimo Raffaeli e del poeta Fabio Pusterla, amici e sodali dello straordinario lirico. Ma l'intervento più divertito e divertente, più giovane direi, fu proprio quello di Piersanti, un giovane arioso e sereno come gli permettono più di ottant'anni di vita passati senza scendere mai a compromessi con il mondo dell'engagement culturale italiano che lo ha sempre osteggiato, addirittura fino all'insulto, perché poeta della Natura, perché negli anni '60 e '70 non scriveva versi con “inchiostro rosso” – vale qui a dire più che mai liberi, non compromessi con la retorica comunista, anzi, stalinista, perché questo era ancora il Partito Comunista Italiano in quegli anni, sordo al dolore e alla verità del nitido orrore dei Soviet –La breve stagione (1967), Il tempo differente (1974). Insomma, rimproveravano a Piersanti di essere lontano, nell'opera, dai temi politici e sociali di quegli infuocati anni.

Ma è davvero così?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo per forza tornare al '67 (La breve stagione) e poi spingerci fino al 1969, quando Umberto Piersanti azzarda il linguaggio cinematografico portando sul grande schermo L'età breve – titolo che richiama un romanzo di formazione di Corrado Alvaro del 1946, ma con il quale la pellicola non mi pare abbia nulla a che fare, considerato che il libro racconta di una realtà calabrese –, un film girato quasi interamente a Urbino(con la seconda metà ripresain parte a Roma), città natale del poeta, con attori non professionisti, piuttosto appartenenti al mondo universitario urbinate. Dopo il debutto letterario del '67,Piersantiquindi tenta di fare quello che giusto in quel decennio, con Pasolini, si chiamerà cinema di poesia, definizione tanto pretenziosa quanto lontana dal cinema, targa dietro la quale molti si nascosero cercando di mascherare la loro pressoché totale ignoranza della tecnica cinematografica, Pasolini compreso, confondendo la figura del cineasta con quella del cinefilo, combinando un po’ tutti dei veri disastri.

Il film di Piersanti, sia detto da subito, fu un film da poche lire e tale rimane da un punto di vista tecnico-produttivo, a partire daititoli di testa, imbastiti con degli elementari cartelli con le didascalie a stampa e decorati a mano (disegni del compianto Walter Piacesi: scrive di lui proprio Francesco Scarabicchi nei suoi saggi –cronache d'arte qualificava lui questi suoi testi –raccolti in L'attimo terrestreVizi, satire e allegorie incisi all'acquaforte, Affinità elettive, Ancona, 2006, pp. 99-103), che pare già al debutto, nel '69 a Urbino, suscitarono l'ilarità degli spettatori. Un film tutto girato male in un bianco e nero (fotografia di Claudio Meloni), che miracolosamente sopravvive all'oggi. Poi la regia soffre di tutti i difetti dell'opera prima, dove l'autore si sforza di farci vedere quello che ha visto fare al cinema rifacendolo, e allora primi piani (però insistiti e tremolanti), campo e controcampo (così rapidi, montati tanto male da Marco Quaresima da creare un effetto tipo freccia lampeggiante o, peggio ancora, con dei neri di raccordo), corse, camminate, giardini, l'altopiano delle Cesane, il tutto pescando dall'Antonioni che va da L'avventura (1960) a L'eclisse (1962), appena prima del suo esordio con il colore, con dialoghi scarni ma scontati, intervallatida una colonna sonora (il grande fraintendimento storico dell'arte cinematografica, qui a cura di Gualtiero De Santi, che scrive a quattro mani con Piersanti la sceneggiatura e lo affianca alla regia) invasiva che cerca di aggiustare il tutto ma che, allo stesso tempo, “dopando” la pellicola, rinuncia al cinema, cioè all'immagine; e poi certo la Nouvelle vague meno amara, meno sulla piazza, di Truffaut e Godard, ma anche di Rivette: credo che più di tutto in questo film si tenti una Parisnousappartient (1961), però, a Urbino, arsa, senza alcun rischio di alluvioni, tutto virato in chiave tardo esistenzialista. E poi l'età adulta. Il primo impiego. L'industrializzazione. La grande distribuzione. Cemento. Ferro. Asfalto. La contestazione. Lontani dai coppi di Urbino. 

In ogni modo la pellicola supera di poco l'ora e si lascia guardare, più riuscita nella seconda parte. E il senso di tutto questo film coagula in una scena che ha luogo verso la fine della pellicola, quando uno dei protagonisti, anzi il protagonista (Roberto, che possiamo intendere come l'alter ego di Umberto Piersanti, interpretato da Alberto Filippini) cerca di convincere un collettivo di sinistra (erano anni in cui l'arte anche da quella parte politica era considerata superflua, una imperdonabile perdita di tempo rispetto al bello che si poteva combinare a impugnare una fumante Walther P38 rubata dal cassetto di qualche padre o nonno partigiano, che a loro volta l'avevano sottratta all'esercito tedesco in ritirata dopo l'8 settembre del '43) dell'importanza dell'azione politica che compie un artista all'interno della società, che così partecipa fattivamente, posizione totalizzante assunta e difesa a caro prezzo da Umberto Piersanti per tutta una vita, perché l'arte è al di sopra della lotta di classe. ci dice Roberto/Umberto nel filmed è quindi alla forza trainante dell’opera darte che bisogna aggrapparsi nella lotta, e non può essere mai il contrario.

Solo un anno dopoL'età breve di Piersanti uscirà Lettera aperta a un giornale della sera (1970) diretto da Francesco Maselli, un capolavoro, insieme a Todo modo di Elio Petri (1976) il film più importante della Gloriosa Storia Patria del Cinema Italiano del Secondo novecentoopere di una lucidità critica e autocritica inarrivabiliQuesto solo per avere un termine di paragone sulla qualità del cinema italiano dell'epoca e l'ingenuo film invece proposto da Piersanti a Urbino.

Ma allora cosa avrà mai di buono questo film? vi starete chiedendo.

Quello che c'è di buono in questo film è che si cerca di portare a salvamento un concetto, ora come allora, che è anche un insegnamento, cioè che l'arte è sempre, quando è autentica e non vittima di decorativismo, rivoluzionaria. Fermarsi a raccontare un fiore sbocciato dentro il più terribile dei campi di battaglia, fa la Rivoluzione.

Ma è giunto il momento di tornare a quella domanda, lasciata in attesa di una risposta per fin troppe righe, vale a dire se era vero che l’opera di Umberto Piersantifosse lontana daitemi politici e sociali di quegli infuocati anni, e la risposta a mio avviso è no,perché Piersantifu un vero innovatore in quanto non concesse un verso – o un fotogramma – all'ipocrisia ideologica sclerotizzantedi quegli anni, così diverso e consapevole che nulla di più rivoluzionario si possa fare che stare dalla parte della Natura, e gli sbalzi climatici di questi mesi ce ne danno ampia, preoccupante testimonianza.

Essere vicini alla Natura significa essere in Dio, da qualunque parte ci si volti a pregare, o solo a guardare.

MASSIMO RIDOLFI

L'età breve, di Umberto Piersanti, 1969: https://youtu.be/1ip367B5uwI

Leggi anche di Massimo RidolfiIl Testimone: Francesco Scarabicchi, il poeta del XXI sec.

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