Mentre gli “Azzurri di Spalletti”, ennesima pagina nera calcistica della storia del Paese, chiudono le valigie e si avviano all’aeroporto, al grido - che sa di nemesi - di «Ce ne andiamo da Berlino», continuo a ripensare a Mosciano.
Anzi: al Convento dei Sette Fratelli.
No, non sto pensando di prendere i voti, per affogare il dispiacere dell’elvetica eliminazione… anche se immagino che una scelta del genere potrebbe non dispiacere ai miei haters, ma sto pensando alla serata di venerdì, quando il chiostro del Convento moscianese ha ospitato la prima serata della terza edizione di “Communitas Cogitationis”, la bella rassegna di momenti culturali inventata da Andrea Castagna e Mirko Rossi.
Venerdì, in quel chiostro, c’era infatti Riccardo Cucchi, uno tra i più conosciuti giornalisti sportivi italiani.
Uno che di calcio, senza alcun dubbio, ne sa più di me e di tutti i miei haters messi insieme.
Non starò qui a ricordare il suo curriculum (se vi interessa, leggetevelo QUI), perché voglio subito tornare alle sue parole, quelle che ventiquattro ore prima di Italia - Svizzera, hanno spiegato con la facile evidenza dei fatti veri, quali siano le ragioni profonde della figuraccia italica agli Europei.
Che - voglio dirlo a beneficio delle facili esasperazioni dell’era social - non è affatto la “Peggiore pagina del calcio italiano”, come ho sentito dire ieri sera in tv, perché ne abbiamo lette altre, e anche di recente.
Basti ricordare, che quello che un tempo era il Paese caro ad “eupalla” (Gioânn, perdonami), ha dovuto guardare gli ultimi due mondiali senza l’emozione del poter tifare per gli Azzurri, circostanza che continua a confermare, nella mia valutazione, quanto la vittoria dell’ultimo Europeo fosse in realtà solo un’incomprensibile coincidenza cosmica, un mix di culo e di errori altrui, perché anche la “Nazionale di Mancini” giocava male e senza “palle”.
Però, vinse.
E chi vince ha sempre ragione… fino a quando, da “Campione d’Europa”, non ti cacciano dai Mondiali, perché a quel punto si scopre il valore vero di quella squadra.
Ho divagato, tra memorie breriane e dolori recenti, torniamo a Mosciano.
Dove Riccardo Cucchi, nel suo raccontare come e quanto il calcio si sia snaturato, e dall’essere produttore di passione sia diventato macchina da soldi, fino ad arrivare a spiegare la ragione prima della miserrima figura di ieri sera.
L’odore degli oratori.
Sì, l’odore degli oratori, quel misto di incenso e sudore che avevano i campetti, nei quali tutti noi siamo andati a giocare, perché solo lì, in quei ritagli di sterrato (o, peggio: di pozzolana) dietro le chiese, c’erano gli oggetti del desiderio di ogni ragazzino: le porte.
Pur di avere il diritto di segnare un gol in una porta che non avesse una traversa immaginaria, calcolata ad occhio sulla base dell’altezza del portiere, eravamo addirittura disposti a servire messa, come faceva Cucchi, o a sorbire interminabili lezioni di catechismo, come facevo io.
In realtà, confesso, lo facevo anche perché a fine catechismo, nella parrocchia romana di Sant’Agnese, ci offrivano un indimenticabile maritozzo.
Torniamo al campetto dell’oratorio.
Perché oggi, non ci sono più.
Oggi ci sono le “Scuole Calcio”.
Costose, organizzate, attrezzate… con campetti in erba, reti candide, tribune per i genitori esaltati, spogliatoi, palestre, sale meeting, bar e magari club house.
Non sanno di sudore, profumano.
Lascio la parola a Riccardo Cucchi:
«Nelle scuole calcio italiane, non si insegna la tecnica, ma la tattica… si lavora per costruire giocatori che sappiano stare in campo, che conoscano i moduli e le posizioni, le triangolazioni e le sovrapposizioni… ma non la tecnica…. ci si concentra sempre e solo sulla “squadra” e non sul “singolo”, dimenticando che è la capacità del singolo che rivela il talento… ma le scuole calcio non cercano i campioni, cercano ragazzini che a sedici anni siano già un metro e ottanta e siano fisicamente molto forti… dove sono finiti quei “piccoletti” dal talento infinito… quelli che giocavano “ala”, tanto talento e piedi veloci… ve li ricordate?».
Già, i “piccoli”.
E in un attimo penso a Bruno Conti che vola sulle fasce contro il Brasile, al Mundial ’82, e mi emoziono al ricordo di quella impresa in Spagna… giusto un attimo prima che, come se ascoltasse i miei pensieri, Cucchi parli proprio della Spagna:
«Sapete perché la Spagna il Real Madrid… il Barcellona… sfornano campioni a raffica? Sapete perché nella rosa della Spagna agli Europei, ci sono talenti di 16 anni? Sedici anni… perché nelle cantere dei grandi club spagnoli, è vietato insegnare tattica fino ad una certa età… si lavora sulla tecnica, perché è quella che amplifica il talento… e quella noi l’abbiamo persa, non esprimiamo più campioni… ».
Ecco perché la Nazionale palesa evidenti incertezze anche nei fondamentali.
Non posso e non voglio aggiungere altro alle parole di Cucchi, ma credo che siano il ritratto fedele del calcio italiano di oggi.
L’inseguire i soldi e non la passione, e il dimenticare la tecnica per coltivare la tattica, hanno esasperato l’agonismo fino a farne agonia.
«Bruno Giordano - conclude Cucchi, che è fieramente laziale - da ragazzino giocava sui sampietrini sconnessi, sviluppando un controllo di palla straordinario… che lo portò da quei sampietrini a giocare nel Napoli di Maradona, su richiesta proprio di Diego…».
Da Berlino è tutto.
ADAMO