Una carbonara vegana.
Abu Dhabi, è una carbonara vegana.
Una di quelle mal riuscite commistioni tra realtà e racconto della realtà, tra l’essere e l’apparire, tra quello che sei e quello che vorresti essere, anzi: quello che vorresti che il resto del Mondo pensasse di te.
Abu Dhabi è la riscrittura di un qualcosa che, per storia, tradizioni e sopratutto vocazione non ti appartiene .
Se sei vegano, fatti tranquillamente i tuoi spaghetti con i pezzetti di seitan fritto (senza chiamarlo guanciale vegetale), la salsa gialla fatta con la panna di soia e la curcuma (senza chiamarla carbocrema vegetale) e il fermentato di ceci (senza chiamarlo pecorino vegetale), e gustatela - se ci riesci - ma lascia stare la carbonara.
Se sei Abu Dhabi, fatti tranquillamente il tuo museo d’arte antica (ma perché chiamarlo Louvre se non sei Parigi?); fatti il tuo museo d’arte moderna (ma perché chiamarlo Guggheneim e scopiazzare Bilbao?); fatti la tua enorme moschea (ma perché i 40mila fedeli devono camminare su intarsi di marmo italiano e pregare sotto un lampadario, largo dieci metri e lungo cinque, fatto tutto di Swarovski in Germania?); fatti la tua università (ma perché chiamarla “Sorbonne” se non sei in Francia?); fatti il tuo enorme parco giochi a tema (ma perché chiamarlo Ferrari, se non sei Maranello?).
A differenza di Dubai, col quale faremo i conti alla fine del viaggio, quello di Abu Dhabi è un emirato diverso, sia per le idimensioni, visto che occupa l’87% di tutta la superficie degli Emirati Uniti, sia per la ricchezza, visto che è stato il primo a trovare il petrolio, sia soprattutto per la vocazione.
Se Dubai rincorre un’occidentalizzazione alla Las Vegas, Abu Dhabi ha dichiarate pretese più alte, con un’attenzione molto particolare alla cultura, tanto da decidere di costruire in pochi anni un bosco di musei importanti.
Ma l’errore fondamentale resta lo stesso: non bastano i soldi.
Fanno tanto, certo.
Possono consentirti di fare quasi tutto, è vero.
Ma non puoi comprare un’anima.
La Cultura è una sedimentazione secolare, una stratificazione che pretende i suoi tempi, non te la puoi comprare perché - per dirla con il Maestrone - “quella degli altri non vale”.
Abu Dhabi si pone come Capitale politica degli Emirati, con l’annunciato progetto di diventare anche, entro il 2030, la Capitale del capitale, ma passando attraverso la cultura e la sostenibilità, senza interferire con le scelte di esasperato edonismo della “Dubai da bere”.
Emirato ricchissimo, visto che possiede il 9% di tutte le riserve petrolifere del mondo (98.2 miliardi di barili) e quasi il 5% di gas naturale (5.8 trilioni di metri cubi), Abu Dhabi non ci sta però a passare da “arricchito” pieno di soldi ma senza stile, quindi rincorre un’eleganza da Occidente, anzi: non la rincorre.
Se la compra.
Perché vuole colmare quel ritardo infinito, che per decine di secoli ha negato alle tribù di queste terre la possibilità di essere protagoniste della propria vicenda umana.
Quando è nato l’attuale emiro, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, nel 1961, ad Abu Dhabi non c’era neanche una strada asfaltata.
oggi apre un Louvre e costruisce un Guggheneim, mentre porta avanti l'ambizioso progetto dell’isola della cultura
Ma lo fa ignorando la voce del Genius Loci, che invece avrebbe potuto aiutarlo a dare all’Abu Dhabi del futuro un “carattere” unico ed una incontestabile certezza di originalità.
Travolto da miliardario furore, l'Emiro ha preferito comprare il kit da “Antico Paese Europeo", credo nella versione “Principato di Monaco”, visto che costruisce quartieri fronte mare con ville da vip, consente l'apertura di hotel solo a 5 Stelle e non s’è fatto mancare neanche un circuito per la Formula uno.
Tutto perfetto, alla vista.
Ma senza sapore.
Come una carbonara vegana.
ADAMO